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Benedetto Croce: il filosofo e il senatore della libertà

A settant'anni dalla morte del filosofo e senatore italiano, la sua eredità rimane attuale. Difendere la libertà e le democrazie liberali dalla tracotanza del potere

Benedetto Croce: il filosofo e il senatore della libertà

La vita come un’opera d’arte; l’arte della filosofia come vita. La libertà come fondamento di ogni individuo. La libertà come musica, ricorrente e travolgente nelle domeniche di casa Croce a Palazzo Filomarino, dove si riunivano prima del fascismo gli amici, i discepoli e illustri passanti che ricercavano nell’incontro con il grande maestro quasi una forma di elevazione sociale.

La libertà come meta verso cui navigare e orientarsi anche quando i tempi e i venti spingevano in una direzione opposta. Quella del totalitarismo, fascista e comunista a cui il filosofo napoletano sempre si oppose in nome della libertà. E se Gentile, il suo “carissimo Giovanni”, portò la filosofia al potere, lui la portò all’opposizione.

Benedetto Croce, prima di diventare il punto di riferimento del pensiero liberale occidentale, fu un uomo profondamente turbato, angosciato e sofferente, a cui la vita aveva sì dato tanto in termini materiali e di glorie (future), ma niente di paragonabile a quel vuoto causato dai tanti lutti che segnarono la sua travagliata esistenza.

Il terremoto di Casamicciola, nell’isola di Ischia del luglio 1883 sgretolò non solo la casa ma anche le certezze e i futuri sogni della famiglia Croce, portandosi via con sé il padre, la madre e la sorellina; egli stesso, come ricorderà molti anni più tardi, rimase “sepolto per parecchie ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo” (parole che si leggono ora in B. Croce, Soliloquio, Adelphi 2022, p. 25).

Della famiglia il giovane Croce subì positivamente l’influenza e l’ascendente della madre Luisa Sipari che gli aveva trasmesso l’amore per i libri, la storia e i racconti passati che spesso si tramandano da generazione in generazione: “Mia madre aveva anche l’amore per l’arte e per gli antichi monumenti; e debbo a lei il primo svegliarsi del mio interessamento per il passato […]” (G. Desiderio, Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce, Liberilibri, 2014).

L’amatissima Angelina Zampanelli, compagna per quasi venti anni, ma mai sposata, cosa che attirò le ire dei preti, morì dopo una lunga e lenta malattia al cuore. Un amore intenso che contribuì non solo ad alleggerire le fatiche umane e letterarie del filosofo ma che ne fece emergere tutto il suo talento, potendosi ad oggi affermare che in quegli anni Croce divenne Croce.

L’amore travolgente, “che muove il sole e l’altre stelle” spinse il filosofo verso l’Olimpo dei più grandi pensatori di sempre.

Croce è soprattutto europeo

Giuseppe Prezzolini - il più italiano tra gli arcitaliani - lo definì il “poeta della filosofia”, e Croce attraversò in ‘volo’ l’Atlantico ben prima del celebre Italo Balbo. E lo fece senza uso di idrovolanti, ma con la forza delle idee, del pensiero, degli scritti che uscivano dalle stanze definite dallo scrittore Desiderio un “laboratorio di idee” - ognuna aveva un nome e un ordine ben preciso - che contribuirono a costruire il mito di un titano della cultura europea e occidentale.

Perché Croce fu sì abruzzese, napoletano e quindi italiano, ma soprattutto europeo, e la sua Storia d’Europa è considerata da un ammiratore come Giovanni Spadolini, “la più importante delle sue opere”. E Federico Chabod la definì - scomodando Sant’Agostino - : “La città di Dio della nostra epoca”.

La forza della sua filosofia, nonostante i muri, le censure, i pedinamenti e l’isolamento affettivo che fu innalzato intorno al suo conviviale e a tratti teatrale cenacolo letterario - descritto magistralmente dalla figlia Elena in L’infanzia dorata e ricordi familiari (Adelphi) - travalicò i confini locali e nazionali per innalzarsi a religione della libertà e quindi a fondamento della civiltà occidentale moderna.

La crescita intellettuale di Croce fuoriesce da ogni canone accademico e forse la ragione del suo successo, oltre che nella straordinaria genialità, sta proprio qui, nello studio, nell’approfondimento libero, vincolato solo ai suoi impulsi ed interessi che spazieranno dalla storia alla letteratura, dalla filosofia (che sarà comunque il suo grande amore) alla politica.

Fu il Croce autodidatta che riportò agli antichi fasti il suo ‘Maestro’ De Sanctis e fece rivivere nuovamente nel suo antico splendore il Giambattista Vico che come il filosofo di Pescasseroli – pur laureandosi in Giurisprudenza – preferì lo studio privato e la lettura dei classici, da Platone a Sant’Agostino.

Il trionfo di Benedetto Croce è il trionfo della scuola della libertà, che si manifesta nei salotti conviviali (non modaioli e radical di oggi) di Roma e Napoli.

A Roma, in via della Missione, a casa dello zio Silvio Spaventa, storico esponente della Destra storica, suo tutore e ‘maestro’, tra professori, politici e intellettuali conobbe il frizzante e scoppiettante Arturo Labriola. È sotto la sua influenza che Croce, anni dopo, si immergerà nello studio del marxismo tanto da essere chiamato “compagno”; ma dopo aver analizzato i testi di Marx non li mandò “in soffitta”, come Giolitti, bensì in una “bara”.

Ma è in questo frangente che il giovane Croce si aggrappa alla filosofia come ad una zattera in mezzo al mare per ricercare un po’ di quiete in quella sua terribile angoscia che lo porterà alla depressione e a pensare anche al suicidio. La filosofia diviene quindi un armonioso strumento utile per la sua sopravvivenza fisica e psicologica.

A Napoli si costituì nel tempo il vero salotto letterario di casa Croce - uno dei più importanti dell’Italia liberale - che si animò vivacemente fino all’arrivo del fascismo e che fu governato prima da Angelina e poi dalla moglie Adele.

Don Benedetto Croce, definito dalla figlia Elena “uomo profondamente socievole”, riceveva amici, discepoli e importanti figure politiche nella sua abitazione di Palazzo Filomarino, quasi adibita completamente a biblioteca. Famose erano le domeniche pomeriggio, e gli ospiti erano fatti accomodare nella “stanza di Mondragone” (nome derivato dall’Istituto presieduto da Adele Rossi).

Dal momento che il filosofo napoletano era attento a non sprecare tempo, una volta che la conversazione si faceva vivace e combattiva, lui si ritirava in una delle varie stanze adibite a studio e biblioteca e proseguiva le letture, la correzione di bozze rimaste in sospeso nell’accogliere i diversi ospiti.

Le due grandi rinunce

Oltre agli storici e stretti amici di famiglia come Fausto Nicolini e Alessandro Casati, c’erano figure che rimandano alla commedia napoletana dei De Filippo, Totò… tra questi spiccano il comm. Antonio Padula, “piccolo di statura, e di ‘epoca’ prettamente umbertina […] Aveva una raccolta da bibliofilo, cospicua di edizioni perfette e rare […] E avendo poi sposato in secondo nozze la sua perpetua per assicurarle l’esistenza, a lei e alla sua pesante famiglia,vendé nei suoi ultimi anni la biblioteca; di nascosto a mio padre, che non lo vedeva quasi più, ma fu sempre con lui affettuoso […]”. Ed Enrico Ruta “un esteta e uno snob, e un intellettuale di enormi pretese: il tutto incarnato in un personaggio di vaudeville ottocentesco napoletano”.

L’evento più atteso e scenografico era sicuramente l’arrivo di Giustino Fortunato, l’altro grande intellettuale meridionale. “Trattato come un prediletto pupillo” (Elena Croce), entrava nell’androne del palazzo con la carrozza e saliva le scale seguito da una corte di accompagnatori, quindi l’immancabile abbraccio con Croce che ricambiava con un affettuoso bacio sulla fronte.

È innegabile che in queste stanze, prima e dopo la caduta del fascismo, si scrisse parte della (vera) storia d’Italia, titolo di un’altra celebre opera crociana che Giolitti riuscì a leggere prima di morire e di cui disse: “È un vero inno alla libertà”.

Benedetto Croce non è stato solo l’ultimo grande filosofo dell’età moderna, ma ne è stato protagonista, riuscendo a coniugare pensiero e azione con un impegno politico-istituzionale che lo portò – con la solita ed eccezionale signorilità – a rinunciare, nel 1946, alla presidenza della Repubblica, quindi a rifiutare la carica di senatore a vita offertagli da Einaudi.

Questo non gli impedì tuttavia di rivestire ruoli di prestigio: Senatore del Regno e poi della Repubblica a partire dal 1910, fu ministro della Pubblica Istruzione con Giolitti (1920-1921), quindi, nell’immediato dopoguerra, presidente del ricostituito Partito liberale e nuovamente ministro nel 1944 nei governi Badoglio e Bonomi.

Una profonda amicizia umana e politica, fu quella tra Croce ed Einaudi, l’altro grande gigante del pensiero liberale italiano. E i due, nonostante la famosa 'polemica' su liberalismo e liberismo, appartenevano a quella tradizione di sentimenti e valori risorgimentali, ereditati da quella Destra storica che da Cavour, Sella e Spaventa (zio di Croce) arrivò – nonostante l’oppressione fascista - al secondo dopoguerra, del cui risanamento morale, politico ed economico essi furono artefici. Per poi spegnersi lentamente e scomparire per sempre dalla cultura italica, viziata nelle sue fondamenta ideologiche e parlamentari dal compromesso tra cattolicesimo e comunismo. Anche se Croce scrisse che in fondo “il liberalismo visse da un capo all’altro del paese, tra strette di mano e qualche salotto”.

Un terremoto origina la sua filosofia; la sua opera terremota la filosofia”, così si è espresso G. Desiderio, che dopo Fausto Nicolini ne è stato appassionato e autorevole biografo. A dimostrazione di come un libro, il più delle volte preso per caso da bambini, possa cambiare - in meglio - la vita e alimentare quel sogno dalla cui potenza dipende la bellezza dell’esistenza stessa.

Il filosofo della libertà rivive nelle sue eterne opere, nel ricordo dei nipoti e degli affezionati studiosi (come la Dott.ssa Teresa Leo), ma c’è un luogo in cui si intuisce la vastità e la potenza del pensiero di Croce: la sua monumentale biblioteca di circa 80.000 volumi, custodita oggi dal prezioso lavoro della Fondazione a lui intitolata, istituita nel 1955 dalle eredi del filosofo e presieduta oggi dal professor Piero Craveri, figlio di Elena Croce e di Raimondo, tra i fondatori del Partito D’Azione.

Salendo al secondo piano del Palazzo Filomarino, si legge una bellissima targa: “Tra queste secolari mura, Benedetto Croce trovò pace domestica e invincibile virtù per la ricerca del vero, per la difesa della libertà, in mirabile opera, in vita esemplare, segnando il suo pensiero alto nell’eterno umano sapere”.

Qui, in questo angolo chiassoso di una Napoli un tempo popolare, Croce ci conduce in un gioco di passi verso la ricerca della consapevolezza di quella libertà per cui combatté – anche se ‘solo’ con la forza del pensiero e del calamaio – tutta la vita.

Sapeva parlare con tutti

In Soliloquio, breve antologia curata da Giuseppe Galasso, c’è un piccolo ma significativo estratto in cui Benedetto Croce parla della “vista dalla casa”: “Quando, levandomi dal tavolino, mi affaccio al balcone della mia stanza da studio, l’occhio scorre sulle vetuste fabbriche che l’una in contro all’altra sorgono all’incrocio della via della Trinità Maggiore con quelle di San Sebastiano e Santa Chiara. Mi grandeggia innanzi a destra, e quasi mi pare di poterlo toccare con la mano, il campanile di Santa Chiara, che sull’alto basamento di travertino, fasciato delle iscrizioni dedicatorie in lettera gotica di re Roberto D’Angiò e della regina Sancia di Maiorca […]”.

Da una stanza all’altra, dove sono allineati libri preziosissimi e rari, dal maestro De Sanctis a Vico, dove sono custoditi i carteggi con Gentile, Giolitti e Sonnino, si respira tutto il fervore letterario e l’impegno civile a cui Croce dedicò anima e corpo senza risparmiarsi.

Il filosofo napoletano viaggiò molto in Italia e in Europa, conosceva inglese, francese, spagnolo e tedesco, ebbe amicizie e corrispondenze con figure di primissimo piano nel campo della scienza, della letteratura e della politica, da Einstein a Mann. Ma soprattutto sapeva interloquire con tutti, dal più alto e prestigioso letterato all’umile popolano, arricchendo la conversazione di piacevoli aneddoti.

Erano in tanti a ricercare in Croce un consiglio, una parola, un aiuto, anche economico. E lui, data la sua vita così tragicamente segnata, aveva quasi un senso di partecipazione e condivisione della sofferenza altrui.

Prima di salire le scale che portano al secondo piano di Palazzo Filomarino (dove abitò dal 1911 al 1952) c’è una piccola panchina in pietra che fece costruire per permettere ai suoi visitatori di attendere seduti il loro momento.

Dalla città di Napoli, quella città che seppe farlo innamorare con la sua vivacità e vitalità, dove amava passeggiare, udir quei detti così spiritosi lasciò andare la sua anima al termine di una tormentata esistenza. Ma non per sempre. Perché Benedetto Croce continua a vivere e vivrà in eterno in quei corridoi pieni di libri che conducono verso la libertà. Il bene supremo per ogni individuo.

Croce fu dunque sì il filosofo della libertà, del patriottismo carducciano, ma soprattutto il padre di una civiltà, quella occidentale, che ha il dovere di tutelare e preservare quello Stato liberale garanzia dei diritti giuridici, economici e politici senza i quali non ci sarebbe futuro.

Un futuro fragile nelle sue fondamenta democratiche che Croce, filosofo ma anche lungimirante politico, aveva già intravisto.

Con la morte di Benedetto Croce, avvenuta il 20 novembre 1952, se ne andava “l’ultimo grande uomo d’Europa” che si oppose alla tracotanza del potere in nome della libertà.

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