«Piaccio perché non do ancora fastidio»

C’è calma, sempre calma. Ogni tanto una pausa: Gian Piero Gasperini prende tempo. Parla come gioca: sereno. Le ali del colloquio, la parola di prima, l’accerchiamento del concetto: si parte da un punto per arrivare a una fine. Una frase per chiudere, senza incertezze, senza dubbi. Sicuro. Arriva l’Inter, sabato: è uguale al Livorno, al Chievo, a chiunque. Si ricomincia da casa, da quelle voci che si gonfiano: «Il Genoa gioca il miglior calcio d’Italia». Come se fosse un’assurdità, come se fosse un controsenso. Invece no. Lo sa lui, lo sanno gli altri: Gasperini non è più un simbolo diverso. Gasperini c’è: dicevano potesse andare alla Juve, è rimasto a Genova. Dicevano: senza Milito e Thiago Motta sarà dura. Sta lì, dov’era l’anno scorso. A quasi 52 anni, questa è la stagione: Europa e campionato, gli esterni che corrono, Crespo, Floccari, Sculli, Palladino, Zapater. I gol. La fama. Le parole.
Mourinho l’anno scorso fece un sacco di complimenti al Genoa e a lei. Quest’anno?
«Eh, l’anno scorso abbiamo giocato bene contro l’Inter. Un punto in due partite giocando bene. Quest’anno spero di giocare anche un po’ peggio ma di fare qualche punto in più».
I complimenti da Mourinho, poi quelli da Ancelotti, poi a cascata quelli degli altri colleghi: che c’è, Gasperini piace a tutti?
«Forse perché non do ancora fastidio. Appena succederà comincerò a stare un po’ più antipatico».
La chiamano professor Gasperini. È perché ha l’aria del maestro o perché ha insegnato a Coverciano?
«Questa di Coverciano è una leggenda metropolitana. Io non ho mai insegnato lì, sono venuti molti tecnici del corso a vedere i miei allenamenti a Genova, ma come fanno molti allenatori di altre squadre».
Non insegna, allora continua a studiare?
«Penso come in tutti gli ambiti, no? Il calcio è una materia che cambia, si evolve: per quanto le dimensioni del campo e il numero dei giocatori siano sempre gli stessi, il metodo di lavoro e la preparazione cambiano costantemente. Allora, sì, certo che studio…».
Lei ha detto che l’80% del lavoro che fa oggi è lo stesso che faceva con le giovanili. Che c’è, ha nostalgia?
«A livello personale e didattico è stata una palestra incredibile. Mi ricordo il primissimo allenamento che ho fatto con i bambini in campo. Mi ero portato una cartellina che avevo appoggiato in panchina, ogni tanto mi avvicinavo e sbirciavo. Avevo paura di non fare le cose così come le avevo preparate. Pensavo: ma sto facendo bene?».
Dicono l’abbia fatto… e poi? È vero che allenare i ragazzi cambia la prospettiva?
«Mi hanno dato una cosa che spero di non perdere mai: l’entusiasmo. Ai ragazzini gli dai un pallone e giocano, ogni tanto gli metti qualche regola, ma loro si divertono comunque. Giocano per giocare. Giocano per il calcio».
Mentre i professionisti sono dei viziati…
«Invece no. Si riesce anche con loro: l’animo con cui sono cresciuti e con cui hanno cominciato a giocare a calcio è quello».
Lei non vede allora quello che vedono gli altri: i calciatori annoiati dalla routine, i ricconi svogliati e abituati solo ad andare in tv?
«Sì e no. Io vedo ancora tanta passione. Ci dev’essere per forza, quella. Molti sono ancora dei ragazzi, sembrano adulti ma sono giovanissimi. Comunque in questi ultimi anni credo che la qualità degli spogliatoi sia migliorata, ci sono meno lamentele, meno capricci, anche perché le società e gli allenatori sono cambiati: a parità di valore in campo, ora considerano molto la persona…».
Lei va nei licei e nelle università a tenere conferenze con i ragazzi. Sono i coetanei di quelli che allena… Come li vede?
«A volte il contatto con loro mi manca, così torno. E per quanto se ne dica dei giovani che sono senza ideali, apatici, svogliati, io vedo tanta gente che ha voglia. Credo che le generazioni vadano sempre avanti, non si torna indietro».
A quanto pare è contento che i suoi figli non abbiano fatto i calciatori…
«Non è che sono contento. C’hanno provato, hanno grande passione, continuano a giocare, sono come il 90 per cento dei ragazzi italiani. Fossero diventati dei calciatori mi avrebbe fatto piacere, però hanno fatto altre scelte. Non si sono creati illusioni…».
Cioè?
«Be’ il calcio crea molte illusioni. Noi vediamo spesso l’apice: la serie A, al limite la B. Piuttosto che fare una scelta intermedia e non crearsi un futuro vero, sono contento che si dedichino alle loro professioni. Il calcio non è solo un lavoro, anche se tutti lo inseguono in maniera ossessiva».
I suoi figli non sognano più di diventare calciatori, lei invece lo sogna il calcio?
«Noi viviamo ancora delle emozioni strane. Per esempio quando ci sono partite particolarmente importanti siamo agitati. Io spesso di notte mi sveglio e comincio a pensare alla partita».
E poi? Se fa così prima, quando perde che cosa fa?
«Faccio fatica a dormire, perché ripensi, rifai, mi capita nel mezzo della notte di pensare che ho sbagliato qualcosa e in quel momento mi viene l’intuizione giusta».
Un inferno…
«Il lunedì è condizionato tutto dal risultato della domenica. E quando vinco sono più nervoso di quando perdo».
Non è possibile…
«Sì, non riesco a scaricare l’adrenalina per tutto il giorno dopo».
Ma è una droga?
«Be’ è una forma di dipendenza che ci portiamo dietro».
C’è qualcosa che l’annoia del calcio?
«Mi stanno annoiando gli eccessi di polemiche, di scuse, di alibi».
E della vita?
«No, della vita no. Non mi annoio mai: seguo la politica, l’economia, seguo tutto. Leggo».
E che cosa legge?
«Ho cominciato a leggere Gomorra. Era tanto tempo che desideravo farlo. A dir la verità mi sono fermato di già, ma riprendo subito. Io sono così: se comincio una cosa devo finirla».
È uno ostinato. E a un ostinato che cosa lo esalta del calcio?
«Il pubblico».
E della vita?
«La gente che si diverte, la gente che si appassiona. A qualunque cosa».
Uno che viene da Grugliasco, cioè dalla cintura di Torino che cosa ha trovato a Genova?
«Io vedo il mare e comincio bene la giornata. Ristrutturata e abbellita, Genova sarebbe straordinaria».
Ha detto che suo papà è un grande appassionato di calcio. A 86 anni guarda ancora le partite?
«Sì, ogni domenica…».
La Juventus?
«Juventus e Genoa».
E quando vi sentite parlate anche di calcio?
«Assolutamente. Durante la settimana mi chiede se sta bene quello o quell’altro, chi metto in campo, come giocherò. Poi vede la partita la domenica e non appena ci sentiamo fa sempre un commento di fine gara».
Critiche?
«E qualche volta è fastidioso, ma lo accetto. D’altra parte commentano tutti, figuriamoci se non accetto il commento di mio papà».
Ma lei come vive con le critiche?
«Ne ho avute tante, sia da giocatore, sia da allenatore. Infastidiscono sempre, non è vero che non è così. Chi dice che non le considera, mente. Fanno male».
Ma a lei non le fa più nessuno. Prende solo complimenti…
«Di recente ne ho avuti tanti, è vero. Qui a Genova non li conto più, sono al di sopra della normalità, sono indimenticabili e lo resteranno sempre. Ci sono stati dei momenti nei quali sono stato identificato col successo del Genoa, ma per me è sempre la squadra che vince. I giocatori, lo staff, la società, tutti. Invece emergevo solo io».


Non dica che stanno esagerando…
«Embè sì. Tutti ’sti complimenti a Gasperini, mi hanno messo anche in imbarazzo. Che faccio saluto? Alzo le mani? Ringrazio lo stadio? Che faccio? Lo dico, a un certo punto l’ho pensato: è troppo. Esagerano».

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