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Piedone l’emiliano e un giorno da Tomba

Un soprannome per ogni stagione. Prima era il Giulietto, per distinguerlo dal babbo che tutti chiamano Giuliano anche se in realtà all'anagrafe è registrato come Antonio, ma su fra gli Appennini usa così: se hai la faccia da Giuliano, te la porti dietro per sempre. Giulietto è cresciuto dritto dritto, anzi «a modino», come dicono a Villa Minozzo e dintorni: bravo sì, sugli sci, una passione per le vie di climbing (quelle facili) sulla Pietra di Bismantova, ma guai a montarsi la testa, semmai meglio smontare i bulloni, quelli dell'officina del babbo meccanico e maestro di sci che di mestieri infatti al suo Giulietto ne ha insegnati due. Prima lo sci e poi l'officina, in mezzo il diploma di perito, altrimenti niente sci.
Giuliano Razzoli, da sabato campione olimpico di slalom, doveva timbrare, manco fosse lo skipass, una sorta di «presenza» in officina per meritarsi il bonus di andare ad allenarsi. Meno male che qualche volta ha bigiato, sussurrano ora in molti fra i fan giunti a Whistler dagli Appennini. Oltre a papà, c'è zio Girolamo, missionario in Indonesia, le sorelle maggiori Giordana e Margherita, il cognato Gaetano, il nipote Damiano, la fidanzata Eleonora e tutto il fan club. Mamma Tiziana è rimasta in Italia e non ha avuto la forza di guardare la seconda manche, come del resto papà Giuliano, che dopo la prima se n'è andato a fare due passi nei boschi di Creekside.
Ora si scherza e si ricorda quando «Giulietto» ha cominciato a crescere in età, sapienza e grazia sugli sci e al traguardo del 47 di scarpa, era chiaro che questo «Piedone l'emiliano» avesse davanti una carriera luminosa sulla neve. I piedi lunghi lo costringono ad un paio di operazioni, ad una lotta perenne contro i calli al punto che persino e proprio Tomba, in una vacanza insieme sul mar Rosso, si è stupito di queste enormi, martoriate «periferiche» su cui ormai Razzo sa scherzare. «Forse ho faticato più di altri - ricorda lui ora -, ma l'ho fatto divertendomi, solo così non mi pesavano le ore in viaggio per arrivare sulle piste».
Il paragone con Alberto Tomba può apparire prematuro: Razzo ha 25 anni e Tomba a quell'età era già una star. Eppure le somiglianze sono impressionanti: non solo per la stazza, né perché sono entrambi nati a dicembre (quasi lo stesso giorno!) e nemmeno perché Vancouver oggi somiglia alla Calgary del 1988: ventidue anni dopo la Bomba, ecco innescato il Razzo, un razzo d'oro. La terminologia bellica si addice a questi uomini dell'Appennino che nel derby con le Alpi hanno cancellato chi lo sci dovrebbe averlo nel dna. I nostri due più recenti ori olimpici in slalom parlano con la «zeta» dell'Emilia Romagna e la cadenza del liscio. Erbazzone e parmigiano. Ed Amarone, anche: alla malvasia e al lambrusco locali, Razzoli preferisce infatti i rossi corposi ed «esteri»: in cantina per la verità lui è da tempo che colleziona paziente il suo «oro». Sono quelle 600 etichette che raccoglie da quando è ragazzo. Poi da quando ha preso a vincere, il premio imbottigliato è un po' un'abitudine.
In nazionale Razzo entra nel 2003, vestendo i colori dell'Esercito. Prima si fa notare per le dimenticanze. Un cappellino qui, un parastinchi li, le buone abitudini non le ha perse nemmeno alla vigilia dello slalom olimpico quando ha scordato al villaggio il corpetto di protezione. Come sciare, però, Razzo se lo ricorda sempre: due podi lo scorso anno, la prima vittoria a Zagabria due mesi fa, poi di nuovo podio. La sua leggerezza nonostante le dimensioni da Marcantonio, la sua abilità a far scivolare gli sci sui piani e non solo ad andar di spigolo sul ripido, lo rendono davvero uno slalomista moderno, proprio come lo era l'Albertone di due decenni fa. A Vancouver si è spesso sentito dire che queste non son piste, che questa non è neve, e perfino che quel tracciato di slalom era una selva di pali su una linea dritta.

Questo è lo slalom, signori, e per vincerlo, d'ora in poi, chiedete come fare a Razzoli.

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