Piero s’arrende, Massimo resiste: due linee su Consorte

Entrambi in trincea per negare responsabilità del partito. Ma uno scarica con decisione il presidente di Unipol, l’altro fa il garantista e glissa sulle sue responsabilità

Piero s’arrende, Massimo resiste: due linee su Consorte

Mario Sechi

da Roma

Leggere la difesa su carta stampata di Piero Fassino fa venire in mente il titolo di un romanzo di Hans Fallada: E adesso, pover’uomo? Perché non è con un'intervista che il segretario dei Ds possa risolvere i problemi del partito e scendere dalla barca: era e resta sempre uno dei due uomini in barca. L'altro è Massimo D'Alema e le differenze tra i due nello stile di navigazione sono notevoli. Il capitan Fassino vuole uscire rapidamente dalla secca Unipol e per questo prevede l'abbandono dell'armatore Giovanni Consorte, mentre lo skipper D'Alema è deciso a tenere alta la bandiera dell'Opa finché è possibile. Se Fassino nell'intervista a Repubblica è netto nella sua decisione di invertire la rotta e scaricare la zavorra, D'Alema finora si è limitato a guardare il sestante, segnare la posizione e cercare una virata che permetta il passaggio di boa tenendosi però a bordo tutto il carico del bastimento.
Il capitan Fassino annota sul suo diario di bordo che «sono emersi fatti sui quali non possiamo chiudere gli occhi: conti esteri, con depositi illeciti che poi sono stati condonati con lo scudo fiscale di Tremonti, consulenze equivoche, alleanze discutibili, commistione tra interessi privati e interessi societari». E fatta la summa delle cose che non vanno e appesantiscono lo scafo in maniera insopportabile, trae la lezione che «non c'è dubbio che questi sono comportamenti assolutamente estranei ai nostri valori e alla nostra storia. Il nostro giudizio non può essere che severo e netto, e la presa di distanza assoluta». Diverso il piano di navigazione di D’Alema. Il presidente dei Ds sa che Unipol ha un ruolo chiave e il gioco dell’Opa sarà pure congelato, ma c’è un sistema da salvare e bisogna pur essere garantisti. È così che lo skipper orza e poggia sapientemente sul caso Consorte ricordando a tutti sul Messaggero del 16 dicembre scorso che le «le indagini sono indagini fino a quando non sono sentenze e le parole restano parole fino a quando non sono provate» e arrivando a dichiarare con nonchalance che è «convinto che alla fine di questa storia uscirà pulito. Al massimo gli imputeranno un'evasione fiscale. Una brutta cosa, per carità, ma mi pare un vizio diffuso in questo sciagurato Paese». Difesa e attacco, fino all’avvertimento ai poteri forti nel forum dell’Unità: «Mi dà fastidio il moralismo a comando: in questa campagna c’è chi ha scoperto che non va più bene colui che fino a ieri è stato suo socio. Non conosco Fiorani, non conosco Ricucci; per essere precisi conosco Profumo, ma non conosco Gnutti. Ma tra loro i contendenti si conoscono. È davvero curioso che vengano a fare la morale a me». Una strategia d’attacco che però rivela tutti i suoi punti deboli, improvvisamente, con una vera e propria epifania quando su una sola riga in due paginate dal bunker arriva la domanda: ci sono anche telefonate di D'Alema a Consorte? Risposta telegrafica: «Ce ne saranno, immagino di sì». Niente da aggiungere, perché tranne rari passaggi (immancabile quello sulla barca) l’arringa di D’Alema è tutta un gioco di specchi in cui il volto che appare è sempre quello di Fassino. E la differenza in fondo è tutta qui. Il Fassino telefonista su Repubblica ieri rivendicava «il diritto di aver fatto il tifo. In un mondo di furbi io preferisco essere tifoso che cinico», ma ammetteva di aver sbagliato, mentre D’Alema non ha fatto una piega. La cifra stilistica del presidente e del segretario dei Ds è diversa e le ragioni sono facilmente intuibili. I dalemiani da sempre hanno sostenuto (e conosciuto) le ragioni e i dettagli dell’Opa, mentre i fassiniani ne erano informati sommariamente. L’armatore Consorte faceva i suoi piani di sviluppo della flotta, ma stando bene attento nel distillare le notizie a Fassino.

È rivelatrice dei rapporti di forza nel partito la telefonata tra il presidente di Unipol e il tesoriere dei Ds che il 6 luglio del 2005, ricevendo da Consorte i dettagli dell’operazione («lo dico a te perché sei l’unico di cui mi fido») ascolta il dominus di Unipol annunciare la sua telefonata a Fassino «senza andare nei dettagli» e chiosa: «Niente, Gianni, niente».
Un niente che mercoledì prossimo nella seduta di autocoscienza della direzione Ds potrebbe voler dire tutto.

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