Presidente Arnaldo Forlani, che effetto le fa vedere il suo grande accusatore Antonio Di Pietro alle prese con i guai giudiziari dell’Idv? Qualche settimana fa sfilava in Procura a Napoli...
«Nessuno, non so nemmeno di cosa debba rispondere».
Lui di niente ma il figlio è indagato per le vicenda degli appalti napoletani. Nessun effetto neppure a vederlo in Parlamento?
«Be’, già all’epoca di Mani pulite era evidente che avesse ambizioni politiche».
Mani giunte, dita affusolate e curatissime, Arnaldo Forlani pesa le parole col bilancino. Srotola i suoi ragionamenti con lunghe pause accanto a una vecchia foto in cui stringe la mano a George Bush senior e, quasi schivo, pare sorpreso dall’interesse suscitato dal volume Potere discreto, colloquio-intervista con Sandro Fontana e Nicola Guiso, nel quale il «coniglio mannaro» ripercorre mezzo secolo di Democrazia cristiana e di storia del nostro Paese.
Gli italiani la ricordano a Milano, in tribunale per il processo Enimont: intimorito, quasi spaventato davanti agli attacchi di Tonino...
«Non ero intimorito, semmai ero disgustato per come la verità poteva essere manipolata. La televisione inquadra quel che le fa comodo. Comunque in quel processo Di Pietro non è stato il solo ad esser stato poco obiettivo».
Ha parlato di «caccia all’untore» durante gli anni di Mani pulite. Oggi Di Pietro va in procura senza giornalisti al seguito, senza flash, senza clamore. Due pesi e due misure?
«Tempi diversi. Allora c’era un’atmosfera di vero e proprio linciaggio politico».
La Dc non poteva arginare quello che lei chiama un «disegno giustizialista» in atto?
«Larga parte del partito, così come i media e l’opinione pubblica, era in soggezione. E in molti casi s’è preferito mettere la testa sotto la sabbia».
Qualche responsabilità, però, l’avevate...
«Certo. Il nodo era legato al finanziamento pubblico dei partiti».
Un’illegalità che coinvolgeva tutti?
«Tutti. Il problema è che si è proceduto nei giudizi in modo difforme, a seconda dei partiti».
Aveva ragione Craxi col suo famoso discorso alla Camera?
«Aveva ragione e torto insieme. Ragione perché proponeva una riforma di sistema, anche nei partiti, sul tema cruciale del loro finanziamento».
E perché torto?
«Pensava che fosse possibile l’ascolto da parte di quella vasta area di opinione pubblica e di opposizione che si era ormai saldata sulla linea del giustizialismo. Una linea che aveva chiaramente obiettivi politici».
E scelse l’esilio...
«Come Garibaldi, che lui aveva sempre in testa. Era il suo mito, il suo riferimento ideale. D’altronde sono celebri le sue dispute con Spadolini su chi aveva più cimeli di Garibaldi e di Mazzini».
Gardini ammise di aver aiutato finanziariamente anche Botteghe Oscure ma il Pci-Pds è stato graziato. Perché?
«Allora il Pci-Pds condivideva la linea giustizialista e, in effetti, incontrò giudizi più comprensivi».
Qual era la strategia?
«Quella di una radicale contrapposizione al pentapartito, cavalcando l’onda che doveva portare a equilibri politici diversi. Ma le cose non sono andate secondo le loro previsioni: arrivò Berlusconi!».
Però il tesoriere del Pci-Pds ne ha avuti di guai giudiziari...
«Sì ma per gli irregolari finanziamenti ricevuti dal partito non sono stati mai coinvolti dirigenti politici».
Mentre voi della Dc...
«Nei nostri confronti sono state usate delle forzature».
La sinistra s’è sempre autorappresentata come moralmente diversa.
In base a cosa?
«Molto sull’accredito che ha sempre avuto da parte degli intellettuali che subivano il fascino di una grande potenza, l’Urss e di una grande ideologia, il comunismo».
L’immagine virtuosa del Pci soltanto una finta?
«La storia dell’autofinanziamento è una favola. Avevamo calcolato che spendevano più di tutti gli altri partiti messi insieme».
Perché il Pci non ha pagato, dal punto di vista giudiziario, come gli altri?
«Perché nella fattoria degli animali sono tutti uguali ma qualcuno è più uguale degli altri».
Ora, però, le inchieste colpiscono anche il Pd, almeno in periferia. Perché soltanto adesso?
«Speriamo che non sia soltanto perché cambia il vento... Ma non conosco nel dettaglio le inchieste e non ho elementi sufficienti per giudicarle».
Mani pulite rivoluzione fallita?
«C’è stata un’involuzione, più che una rivoluzione. Molti magistrati ora lo comprendono e soprattutto da loro, oggi, dovrebbe venire una proposta di riforma giusta».
Ci fu un’invasione di campo della magistratura?
«Se lo ricorda l’avviso di garanzia al presidente del Consiglio Berlusconi mentre presiedeva a Napoli la conferenza mondiale delle Nazioni unite?».
Toghe politicizzate: come se ne esce?
«Il presidente della Repubblica, che è a capo del Consiglio superiore della magistratura, avrebbe potuto e può esaminare o far esaminare certe vicende processuali. Ma il problema è a monte».
Ossia?
«Nella magistratura ci sono troppe incrostazioni correntizie e poi è possibile immaginare magistrati veramente autonomi se pensano di sviluppare e concludere la loro carriera personale candidandosi per questo o quel partito?».
Ora se n’è accorto pure Luciano Violante...
Forlani, guardingo, non commenta e lascia spaziare il suo sguardo, ancora rivolto al passato, alla fine travagliata della Prima Repubblica, spazzata via dal furore giacobino degli anni Novanta.
Commissione parlamentare su Mani pulite: favorevole o contrario?
«Sono scettico. Le commissioni parlamentari d’inchiesta si muovono sempre su logiche politiche. Guardi quella sulla P2, presieduta da Tina Anselmi, che definiva l’associazione “eversiva con fini antidemocratici”...».
Non ne ha condiviso le conclusioni?
«Difficile avere giudizi completamente obiettivi.
E questo fu?
«Personalmente non mi ha convinto neppure questa lettura ma ciò dimostra che è difficile arrivare a una verità vera».
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