Palermo - L’interrogatorio di domani a Palermo di Luciano Violante, a conoscenza della trattativa fra Stato e mafia (è già stato ascoltato dai Pm il 23 luglio sui suoi rapporti con Vito Ciancimino) indirettamente rispolvera vecchi interrogativi sul ruolo oscuro ricoperto dalla sinistra prima delle stragi del ’92. L’ex presidente della commissione Antimafia che fra 24 ore sfilerà all’udienza del processo sui presunti favoritismi del Ros al boss Provenzano, dovrà spiegare perché con 17 anni di ritardo s’è ricordato improvvisamente di quella «trattativa». E dovrà spiegare molto altro: ad esempio, perché ha affermato il falso sulle «sole tre volte» in cui incontrò il generale Mori (sarebbero molte di più); perché ha detto di non aver mai voluto avere a che fare con Ciancimino, quando agli atti della commissione si scopre che proprio lui suggerì di ascoltare l’ex sindaco di Palermo che ne aveva fatto richiesta; perché poi non l’ha più ascoltato in coincidenza con le dichiarazioni del politico siciliano che aprivano squarci sulla sinistra locale e nazionale; perché, dunque, ha detto che Mori voleva farlo incontrare a tu per tu con Ciancimino, quando così non era. E perché non andò lui dai magistrati e denunciare l’esistenza di una trattativa segreta gestita dal generale Mori, anziché scaricare la colpa su Mori che non avrebbe dato seguito alle sue sollecitazioni di avvertire subito i Pm di Palermo.
Gli interrogativi crescono allorché si vanno a rileggere le dichiarazioni dei due Ciancimino, padre e figlio. Entrambi sostengono che Totò Riina di fronte al papello «con le proposte irricevibili» rispose picche «perché aveva le spalle guardate» o «coperte». Da chi le avesse coperte o guardate, già prima delle stragi, nessuno lo sa. Non lo sa Vito Ciancimino, ma ne prende atto quando viene trattato con sufficienza dalla persona a cui chiede disponibilità a dare a ascolto alle proposte del Ros. Lo conferma il figlio Massimo. Lo rivelano fior di pentiti, da Cangemi a Brusca fino a Giuffrè, allorché parlano dell’esistenza di «referenti istituzionali» che trattavano esclusivamente con Riina prima delle bombe, anche se loro non sanno chi diavolo siano. Prendete Giovanni Brusca, quello che ebbe la malaugurata idea di rivelare il suo incontro con Luciano Violante sul volo Roma-Palermo e che poi, fra mille polemiche che gli costarono lo status di pentito, ritrattò (il suo avvocato finì addirittura sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa!). Al processo Dell’Utri se ne è uscito così: via via che facevamo le stragi da Capaci a via d’Amelio, fino alle stragi del ’93, «la sinistra sapeva». Sempre Brusca nei vari processi sulle stragi ha sostenuto che vi era una «concomitanza di interessi» nel senso che, per quanto riguardava Cosa nostra, questa non era interessata più di tanto a far perdere la presidenza della repubblica ad Andreotti, «ma che di fatto l’omicidio Lima non era bastato e così, ci venne detto, venne deciso di colpire Falcone». Secondo Cangemi, la morte di Falcone «servì a prendere due piccioni con una fava». Ai suoi fedelissimi, infatti, Riina potè dire di aver vendicato il maxiprocesso con l’uccisione di Lima e di Falcone, ma in realtà - sibila Cangemi - l’interesse di Cosa nostra è «coinciso con interessi altri e diversi». Questi altri e diversi interessi potrebbero coincidere con l’intenzione, di cui parlano altri pentiti, di provare a uccidere Falcone all’uscita di un ristorante romano nel periodo in cui il giudice veniva bocciato nella corsa alla direzione dell’ufficio istruzione di Palermo. Quel giorno, all’improvviso, il commando viene bloccato. Se non se ne fa più nulla non è perché la soffiata sul ristorante dove il giudice mangiava è sbagliata. Riina, senza convocare la commissione, sposta l’attentato dal «cuore» politico di Roma al «cuore» della mafia, in Sicilia. Il botto sarà eclatante, dice, e fa niente che poi la reazione dello Stato si farà sentire, perché tanto vi è «l’assicurazione» che i danni fatti a Capaci dopo un po’ di anni di sofferenze «saranno ripagati» e «nulla di rilevante» ricadrà su di noi: sarà un caso, ma il 41 bis, il carcere duro per i boss, dopo Falcone non verrà attuato. Per capire chi siano coloro i quali, a livello più alto, «avevano interesse a sbalzare di sella chi comandava» (copyright Brusca e Cangemi) si sarebbe dovuto indagare sulla «trattativa pre-stragi» che consentiva a Riina di piazzare tritolo avendo le «spalle coperte». L’indagine non s’è fatta forse perché non portava a Berlusconi, il quale oltre a non avere interesse a far sbalzare di sella il «Caf» che a quei tempi comandava (Craxi era suo amico), da Cosa nostra era minacciato - al contrario delle coop rosse che in quel periodo facevano affari a Bagheria per decisione di Provenzano - con estorsioni alla Standa e attentati alle antenne di famiglia. Sempre Brusca ha riferito che la mafia aveva chiesto a Berlusconi di risolvere i loro problemi e di non preoccuparsi dei suoi avversari che non lo potevano tenere sotto schiaffo perché «non possono far finta di cadere dalle nuvole in quanto ci sono di mezzo anche loro».
Tutto ciò accadeva, ripetiamo, in anni in cui Riina aveva le «spalle coperte» sulle bombe che portarono al disfacimento del «Caf», all’elezione di Scalfaro al posto di Andreotti, a quella di Napolitano alla presidenza della Camera, all’avvio di una nuova stagione politica che però abortì per la nascita, e la vittoria al voto, di Forza Italia. Che avvenne dopo le stragi, con buona pace per chi non segue il filo rosso volendo Berlusconi mafioso a tutti i costi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.