È un giovane uomo calvo, in divisa. Accompagna le sue parole con ampi gesti delle mani e indossa un grosso paio di occhiali neri. È cieco, ha perso la vista in guerra, e quel giorno - il 23 aprile 1944 - da un palco allestito ai piedi di Palazzo Ducale a Genova, sta rivolgendo un lungo discorso ad un migliaio di persone curiose, che fissano attente il suo volto pallido.
Piazza Matteotti, in quei tempi, era intitolata all'eroe fascista Ettore Muti, e l'oratore è pure lui uno di quelli - eroe e Medaglia d'oro guadagnata in Grecia - e sta parlando per cercare di sollevare il morale - bassissimo - dei genovesi che simpatizzano per la Repubblica sociale di Mussolini.
Parla bene, sa cosa dire, quali temi scegliere per accattivarsi la simpatia dell'uditorio, composto in prevalenza da giovanissimi militari, vecchi reduci della guerra del '15 - '18 e donne del popolo con la borsa della spesa sotto il braccio.
Ricorda, per primi, i molti genovesi che hanno perso la vita nel corso della guerra, dai deserti africani ai mari di casa, dalle steppe russe alle montagne greche.
Rievoca i fasti della Repubblica marinara, le glorie navali e le conquiste mercantili. Sa ritrarre con rispetto i grandi genovesi di sempre. Su tutti, il profeta repubblicano Giuseppe Mazzini. Confronta poi, il passato con l'attualità: gli è facile stigmatizzare una data come l'8 settembre, rimpiangere le colonie perdute, evidenziare con toni drammatici i combattimenti tra eserciti stranieri per il possesso di Roma. Usa la retorica dell'epoca per esortare i giovani a riprendere il lavoro. Gli ufficiali tedeschi presenti sul palco, infatti annuiscono soddisfatti. Usa toni più alti per esortare gli stessi giovani al combattimento, ma è noto che egli - il cieco di guerra Carlo Borsani - sia un fascista moderato, un uomo che preferisce la forza della parola a quella del bastone.
Conclude, l'oratore, in un crescendo di applausi, inni, fanfare. La banda musicale della G.N.R. ferroviaria intona persino l'inno repubblicano di Mameli. Scende dal palco, Borsani, sorretto da Giovanni Lonzu e Bruno Gemelli, entrambi mutilati di guerra, e viene guidato dal generale Besozzi, che gli descrive i soldati schierati nella piazza. Con gesti delicati di cieco, Borsani sfiora quei visi con le mani, il freddo degli elmetti e delle armi. Sono momenti forti, la gente, abituata a commuoversi di fronte a un tricolore, stenta a trattenere le lacrime vedendo un uomo privo di vista che bacia con devozione sincera la bandiera italiana.
Era un poeta, Borsani, nato nel 1907 a Legnano. L'infanzia segnata dalla scomparsa del padre, operaio e segretario di una sezione socialista, vittima di un incidente sul lavoro. La madre, molto cattolica, lo farà studiare dai preti, con ottimi voti. Da giovane sarà un esponente dei Gruppi universitari fascisti milanesi, e, con la guerra del '40, partirà volontario come tenente di fanteria. Poi, durante un furioso attacco sul fronte albanese, le gravissime ferite al volto, il dolore, il buio totale. Sarà salvato a stento, Borsani, ma resterà irrimediabilmente cieco. Sorretto da una volontà più forte della disgrazia, si impegnerà con passione negli studi, laureandosi con onore. E gettandosi poi nella ricerca poetica, nella bella scrittura, nel giornalismo militante. Si sposerà, Carlo, con una giovane che lo ama da tempo, e sarà infine decorato da re Vittorio Emanuele III in persona per il suo eroico comportamento in guerra.
Ma è proprio questa che va male, malissimo. All'armistizio dell'8 settembre, Borsani reagisce con lo sdegno più profondo. Dopo giornate di sbandamento, si pone a disposizione del nuovo governo del Nord, parlando alla radio nazionale e nelle piazze, pubblicando opuscoli di propaganda e articoli sui giornali. Proprio di un giornale del Nord - «Repubblica fascista» - sarà il direttore (forse il primo non vedente nella storia a dirigere un giornale per vedenti?), curando anche il periodico dei mutilati «La Vittoria».
Borsani è un uomo reso più sensibile dal dolore e dalla menomazione, è un buono, si batte contro l'estremizzazione di un conflitto che sente scivolare sempre di più nella lotta fratricida. Il suo nome è un vessillo per gli ambienti moderati di Salò, ma è uno scandalo per gli esagitati dell'ala dura del fascismo, solo intenti ad avvitarsi nelle spire di una violenza crepuscolare. Nei rapporti di forza interni al fascismo residuale del 1945, Borsani sarà quasi visto come uno di quelli che cerca il dialogo col nemico, un uomo rispettato, ma inopportuno. Il suo «buonismo» gli costerà il posto, sostituito alla direzione di «Repubblica Fascista» con elementi intransigenti vicini alla fazione di Pavolini.
Ma quel giorno, il 23 aprile dell'anno 1944, dopo avere parlato in piazza a Genova, Carlo Borsani fece visita alla bella sede dei mutilati di corso Aurelio Saffi, all'interno della quale ognuno degli intervenuti potè esporre, lontano dalla cornice ufficiale della giornata, le proprie preoccupazioni, la condizioni di vita e le incognite del momento. A tutti la battaglia in corso appariva decisamente inutile, sproporzionata, ingiustificabile. Ma infuriava su uomini e cose senza soluzione di continuità. Lo stesso giorno, infatti, aerei angloamericani effettuarono un'incursione - l'ennesima - su Genova, causando, oltre ai consueti danni a monumenti e abitazioni civili, tredici morti (tra i quali alcuni militari tedeschi) e diciotto feriti. L'allarme risuonò anche nelle sale dell'edificio di corso Saffi, magistralmente affrescate da Santagata, e rese l'atmosfera ancora più greve. Sia pure lontane, le esplosioni fecero tremare i muri della struttura, molto più eloquenti di tante parole. La giornata genovese di Borsani volse al termine. Gli ultimi saluti, le ultime frasi rassicuranti e poi il poeta fu accompagnato via, per rientrare a Milano.
Al termine della parabola storica del fascismo, Borsani riuscirà a scambiare poche parole con Mussolini. Lo esorterà a rimanere a Milano, per fare quadrato con i propri fedeli. Inutilmente. Poi il crollo finale travolgerà anche Carlo Borsani. Il giornalista moderato, il cieco di guerra indifeso, il poeta decorato, finirà nelle mani dei peggiori insorti milanesi, a Viale Romagna. Sottoposto ad un «processo-farsa», condannato e strattonato contro un muro, cadrà sotto i colpi partigiani. Accanto a lui, un altro giovane direttore di giornale: Don Tullio Calcagno di «Crociata Italica», mitragliato mentre stava impartendo l'assoluzione al corpo esanime del collega. Poi, ci saranno mani di sciacallo che sfileranno dal corpo martoriato di Borsani la stilografica, l'orologio d'oro, il portafogli. Ma ci saranno anche mani di cristiano che restituiranno alla vedova la vera nuziale, il rosario dono di Papa Pio XII, gli occhiali neri schizzati di sangue.
A Genova, nella breve visita di un anno prima, tenendo il capo eretto, rivolto al cielo, aveva detto: «...La voce dei morti è come la voce di Dio: si fa intendere nella solitudine della meditazione e nel raccoglimento della preghiera, non già nel frastuono e nel contrasto delle passioni e degli odi, o nel turbine delle vendette e delle ire fratricide...
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