Dopo 236 missioni belliche, 3 decorazioni (croce di guerra tedesca, croce di guerra italiana, medaglia di bronzo al valor militare), 79 anni da pilota, di cui 5 trascorsi nella Regia aeronautica, oltre 7.000 ore di volo (ma ha smesso di contarle agli inizi del terzo millennio), 6 brevetti e 100 estati che la sorte gli ha elargito, all'approssimarsi dell'autunno il comandante Francesco Volpi è riuscito a portare a termine una missione impossibile, quella che fa di lui un esemplare unico nella storia dell'aviazione mondiale. Venerdì 9 ottobre, a Milano, presso l'Istituto di medicina aerospaziale dell'Aeronautica militare, si è fatto rinnovare per l'ennesima volta il permesso a pilotare l'aereo. «Mi hanno guardato dentro e fuori dalle 8.30 alle 13, senza trovare nulla di guasto».
Siccome il martedì successivo il vegliardo compiva un secolo di vita, essendo nato a Trento il 14 ottobre 1914 infelicemente regnante Francesco Giuseppe I imperatore d'Austria e re apostolico d'Ungheria, la commissione medica ha fissato al 14 novembre la data di scadenza della licenza di volo. Prudenza inutile: il mese prossimo Volpi è intenzionato a ripetere l'intera trafila, anche perché l'idoneità tecnica, conseguita lo scorso 5 maggio, gli consente fino al 2016, se c'è il placet sanitario, di librarsi liberamente in aria alla cloche di un velivolo. E quindi rifarà analisi del sangue e delle urine, visita somatica, visita neurologica, visita cardiologica, visita otorinolaringoiatrica, visita oculistica. «La penultima è superflua, tanto con la cuffia, obbligatoria in cabina di pilotaggio, ci sento benissimo. Quanto all'ultima, se la potevano risparmiare: ancor oggi leggo libri e giornali e guido l'auto senza occhiali». Eh sì, perché a 100 anni suonati il nostro ha pure la patente di guida in corso di validità che gli concede di sfrecciare per Trento al volante della sua Bmw Serie 3 coupé. «L'ho rinnovata l'anno scorso. Mi scadrà nell'ottobre 2015».
Un centenario che dimostra l'agilità di un quarantenne è evento più raro di un arcobaleno lunare: dovreste vedere con quale lestezza balza al posto di comando dell'aereo, dopo aver salito una scaletta malsicura e percorso in perfetto equilibrio una passerella traballante. Ma un centenario che, prim'ancora d'aver superato gli esami medici, il 4 settembre scende fino a Roma e ha il fiato per sottoporsi alle massacranti prove presso il Centro addestramento Alitalia di Fiumicino, al fine di conseguire sul simulatore di volo addirittura il certificato di qualificazione come pilota internazionale d'aerei di linea, supera ogni immaginazione. «Mi hanno dato l'idoneità a portare un Airbus 320 da 164 passeggeri», informa. «Sì, papà, però ti hanno scritto accanto ad honorem, validità 1 giorno», lo corregge il figlio Furio, 70 anni, di cui 38 trascorsi nell'Aeronautica militare, collocato a riposo con il grado di generale.
Il fatto è che per Francesco Volpi volare è la vita stessa. Se smettesse, morirebbe. Dunque, smetterà soltanto dopo che avrà deciso di morire, evento da considerarsi per ora altamente improbabile. Non che l'ex tenente - «o forse capitano, non ho mai saputo quale grado mi abbiano riconosciuto finita la guerra» - abbia timore di affrontare quel momento: «Io non ho mai avuto paura. La paura ti toglie lucidità, ti paralizza. Se avessi avuto paura, non sarei qui a parlarne. Ho sempre e solo pensato a tirare fuori il meglio da me stesso, anche nelle situazioni più drammatiche. Cammino con la morte a fianco da quando avevo 27 anni. La conosco da così lungo tempo che ho sempre cercato di andare più veloce di lei per non farmi raggiungere».
È dal 6 giugno 1935, da quando il ministero dell'Aeronautica gli conferì il primo libretto personale di volo, che s'è abituato all'idea di lasciarci le penne. «Ci presentammo in 8.000 per 50 posti. Serviva l'assenso dei genitori. Mia madre si mise a letto, dicendo: Non voglio piangere un figlio morto, perciò non mi alzerò più fino a che non avrai rinunciato al tuo insano proposito. Il medico di famiglia ci mise due settimane per convincerla a rimettersi in piedi, poverina».
Da papà Roberto, rappresentante di abbigliamento, e da mamma Olga, casalinga, deceduti rispettivamente a 95 e a 91 anni, il decano dei piloti ha ricevuto il dono della longevità. Che lui preserva con ogni cura: «A parte la colazione del mattino a pane e marmellata, mangio una volta al giorno, a mezzodì, ma soltanto perché me lo ordina l'orologio, altrimenti per la voglia non mi metterei neppure a tavola. Solo riso e pesce con verdure del mio orto, che coltivo personalmente. Vino poco. Quello fa male tutto, è un artificio, in natura non esiste, infatti ho cominciato a berlo dopo gli 80 anni, un bicchiere al giorno».
Vive da solo, in splendida autarchia. Fino al 2008 gli ha tenuto compagnia la moglie Edda. «Era vicentina, di Recoaro Terme. Ci conoscemmo all'Università di Padova. Prima che tu parta per il fronte, vorrei sposarti e avere un figlio, mi disse. Le nozze furono celebrate nel 1941. Il giorno di Natale del 1942 diede alla luce Furio, che campò solo 72 ore. Infezione all'ombelico dopo il taglio del cordone. Allora si moriva così. Nel 1944 nacque il secondo Furio, che oggi abita a Roma, seguito da Erio nel 1947, che vive qui a Trento ma passa cinque mesi l'anno a veleggiare nei mari del Sudamerica».
Avventuroso come il padre.
«Ho sempre inseguito la libertà. Mi laureai in giurisprudenza, ma dopo sei mesi nello studio di un avvocato scappai per non impazzire. Finita la guerra, per mantenere la famiglia mi rassegnai a dirigere l'ufficio legale dell'Unione industriali prima a Trento e poi a Bolzano, sempre rimpiangendo gli anni trascorsi nella Regia aeronautica».
Il suo primo volo?
«Nel 1935 sopra il campo della scuola militare di Cameri, con un Breda 15 S. Ho pilotato 49 tipi di aereo, nella mia vita. Poi hanno cominciato a registrarli per classi e allora ho smesso di tenere il conto. All'inizio ero nell'Ala Littoria, la prima compagnia di bandiera italiana. Poi dal 1941 al 1943 fui spedito al fronte».
Dove ha combattuto?
«Nel Mediterraneo e in Russia. Il mio compito era individuare e segnalare agli aerosiluranti le navi inglesi che incrociavano al largo del Nordafrica. Una volta m'è pure toccato bombardare Malta».
E in Russia?
«Il periodo più lungo l'ho trascorso nella base di Kiev. Ero nella Sas, Servizi aerei speciali. Mi sono trovato a comandare più di 30 piloti insieme. Non è facile: obbediscono solo se vedono una personalità superiore alla loro. Quando c'era una missione disperata, il generale Enrico Pezzi, che sarebbe morto il 29 dicembre 1942 portando soccorso ai soldati accerchiati nell'ansa del Don, mi diceva: Trova qualcuno disposto a compierla. Tanto sapeva che mi sarei offerto io. La croce di guerra tedesca la ebbi atterrando dentro la sacca di Stalingrado con due capi della Luftwaffe a bordo. I loro piloti non ebbero il coraggio di portarceli».
E lei dove trovava questo coraggio?
«L'ho ereditato dai miei nonni e bisnonni, che fisicamente avevano più le sembianze di militari che di parenti. E dalle mie nonne di origine austriaca, contesse della nobiltà asburgica, che mi inocularono il disprezzo per la vita banale. In pieno regime fascista organizzai uno sciopero di protesta degli studenti al liceo classico Giovanni Prati di Trento. Il preside mandò a chiamare mio padre e gli disse: Se suo figlio va avanti così, ci porterà via le porte della scuola».
Avverto una punta di nostalgia per Cecco Beppe. Quando morì, lei aveva appena 2 anni. Da bambino ne sentiva parlare in casa?
«Non solo in casa: in tutto il Trentino. Poi, con l'avvento del fascismo, lodare il sovrano divenne proibito. Adesso la gente ha ripreso a rimpiangere l'impero asburgico».
Torniamo alla sua vita spericolata.
«Dalla Russia rimpatriò solo il 20 per cento dei piloti. Ho ancora in corpo 21 schegge, una nel cranio, una nel mento, una nel palmo della mano destra, le restanti nel torace. Molte mi furono estratte dal professor Perez, capo dell'infermeria a Stalino, oggi Donec'k, in Ucraina. Per fortuna le parti nobili sono state risparmiate, non so se mi spiego».
Eccome.
«Bacco e Tabacco distruggono. Ma Venere no, posso garantirglielo. Mia moglie, santa donna, fu sempre molto, molto, molto comprensiva in materia».
Ma è proprio sicuro di essere ancora idoneo al volo?
«L'unico deficit permanente è quello uditivo. Colpa del rumore dei trimotori. L'Ente nazionale dell'aviazione civile l'ultima volta ha preteso che mi sottoponessi anche a un esame per accertare eventuali segni premonitori del morbo di Alzheimer e a un ecodoppler dei vasi del collo. Alla fine il chirurgo vascolare ha mostrato l'ecografia ai colleghi, chiedendo loro di valutare l'età del titolare delle arterie. Sui 50 anni, è stata la risposta unanime».
Il suo mi pare uno sport costosetto.
«Lo dice lei. Il noleggio di un ultraleggero viene 120 euro l'ora, carburante compreso, ma ci sono anche modelli da 90 euro. Con un Cessna se ne spendono 350. Costoso semmai è il brevetto di volo: 4.000 euro per gli ultraleggeri, 15.000 per gli aerei da turismo».
Ha mai avuto un aereo tutto suo?
«Sì, un bimotore Piper Aztec. Siccome viaggiava a una velocità di 300 chilometri orari, raggiungevo Tripoli, in Libia, e tornavo a Trento in giornata. Oppure andavo a Cannes a mangiare la bouillabaisse o a Parigi per la soupe d'oignon».
Decolla spesso?
«Fino a tre anni fa, una volta al mese. Adesso un po' meno e solo se c'è bel tempo. L'ultimo giretto l'ho fatto due giorni prima del mio centesimo compleanno: 40 minuti con il secondo pilota Mario Marangoni sul suo Ca 100, perfetto rifacimento del velivolo creato negli anni Trenta dal trentino Gianni Caproni».
La sua meta preferita qual è?
«Le Dolomiti di Brenta. Vedere dall'alto i camosci che scorrazzano liberi è uno spettacolo unico. Sto su un'oretta. Di solito mi accompagna l'amico Paolo Cattani, che fino al 2003 è stato pilota dell'Alitalia sulle rotte intercontinentali e oggi è istruttore all'aeroporto Caproni di Trento, alla cui progettazione e costruzione ho contribuito negli anni Sessanta».
È tranquillo quando sale sugli aerei pilotati da altri?
«Eeeh... Dipende. Di mio figlio e di Cattani mi fido. Anche di Valentina, però ci tengo gli occhi sopra, e non solo per ragioni estetiche». (Si riferisce a Valentina Musmeci, docente di inglese, scrittrice e grande viaggiatrice, diplomatasi pilota alla scuola di Cattani, la quale ha appena dedicato a Volpi la biografia Più forte, più in alto , edita da Curcu & Genovese).
Se l'è mai vista brutta alla cloche?
«Tante volte».
Quante?
«Almeno un centinaio».
Se il motore ha un'avaria, lei che fa? Si getta con il paracadute?
«Plano e atterro. Oddio, in Trentino è difficile, e non soltanto per le montagne».
Per che cos'altro?
«Per i vigneti, pieni di pali in cemento che sventrerebbero l'aereo. Ma un pomaio giù a valle lo trovi sempre. M'infilo tra due filari di meli, così mi tagliano le ali e frenano la corsa».
Azzardoso.
«Se poi perdi la testa / molla tutto e fermo resta. / L'aereo plana, credi a me, / sa cavarsela da sé. La macchina del cielo è stabile per sua natura, basta lasciarla andare. Il pilota può solo disturbarla».
L'età le impedisce di fare qualcosa?
«Niente! Nemmeno di sciare. L'ho fatto sino a due anni fa. Adesso i miei figli mi hanno proibito di andare in bicicletta. Secondo loro è troppo pericoloso».
Piglia la pensione da quasi mezzo secolo. Si sente in colpa?
«No, no e no! Me la sono pagata con il mio lavoro e non peso sul sistema sanitario. E poi l'Inps mi dà appena 800 euro al mese».
Che mi dice di Matteo Renzi come pilota dell'aereo Italia?
«Non ho la competenza necessaria per giudicare il politico. Come persona mi è simpatico. Non posso dire la stessa cosa di Silvio Berlusconi».
Il Cavaliere ci resterà malissimo.
«Non si è comportato da statista. E anche ora, invitare a cena quel Vladimir Luxuria e sposare la causa dei gay...».
Sic trans gloria mundi.
«Andiamo! Non si fa».
Se potesse, le piacerebbe tornare indietro e rivivere tutta la sua vita?
«No, ho già vissuto per 100 anni come volevo io. Se sono ancora qui, è solo perché mi resta ancora molto da imparare».
C'è qualcosa che non rifarebbe?
«Eviterei di sottopormi a un'altra intervista come questa. Mi è parso di essere interrogato dalla Gestapo».
(725. Continua)
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