Coronavirus

Dopo 9 mesi e 5 miliardi è ancora caos mascherine

"Da settembre solo italiane" prometteva Arcuri. Invece continua l'import dalla Cina. Tra dubbi e sequestri

Dopo 9 mesi e 5 miliardi è ancora caos mascherine

Ancona 120mila. Palermo 14mila. Seicentomila a Treviso. Sono i numeri dei sequestri di mascherine non in regola negli ultimi dieci giorni.

A nove mesi dall'inizio della pandemia, basta scorrere le cronache locali per scoprire che la guardia di finanza non si è mai fermata. Eppure il commissario straordinario Domenico Arcuri aveva promesso la «fine della speculazione» quando intervenì a fissare il prezzo massimo di vendita a 50 centesimi, mossa che rese le mascherine introvabili per giorni. Le inchieste non hanno risparmiato nemmeno i lotti importati dal commissario straordinario: ci sono quattro indagati per una partita da 70 milioni di euro.

Con il tempo, anche il prezzo di Stato ha perso di senso perché, terminata la prima fase dell'emergenza e ripresi i trasporti merci, il prezzo di importazione è crollato. «Oggi faccio arrivare in Italia in aereo le chirurgiche a circa 10-12 centesimi -spiega l'importatore Francesco D'Onofrio- ma via nave, con grandi quantitativi si può scendere anche a 3-5 centesimi». Il prezzo massimo di Stato, come spesso accade, per molti è diventato una tariffa fissa. Di recente alcune grandi catene di supermercati sono scese a 30 centesimi, ma nei negozi al dettaglio i 50 centesimi sono ancora la regola e se le mascherine sono cinesi per il rivenditore c'è un bel profitto.

A fine maggio Arcuri fece un'altra promessa: «Le aziende italiane, poverine, ci mettono qualche tempo a raggiungere la produzione massima. In Cina le fanno da qualche decennio. Ma a settembre non ci saranno più mascherine cinesi, perché quelle italiane basteranno al nostro fabbisogno».

Settembre è passato da tempo ma anche questa promessa è caduta nel dimenticatoio. L'importazione dalla Cina continua massiccia. Con grande scorno dei piccoli produttori italiani. All'epoca della prima ondata il governo invitò l'industria italiana a mobilitarsi per creare una filiera produttiva locale. Invitalia ha anche emesso un bando da 50 milioni per chi riconvertiva, ma molti sono rimasti tagliati fuori: troppo poco tempo e troppa documentazione richiesta mentre gli uffici erano in lockdown. Molti si organizzarono rischiando in proprio. «In tanti -spiega Alessandro Rossi, direttore commerciale della lombarda Unigasket- sono rimasti spiazzati quando è stato fissato un prezzo imposto che obbligava a vendere in perdita da un giorno all'altro, senza un periodo di allineamento. E ora siamo di nuovo in difficoltà perché il mercato è invaso da prodotti cinesi a costi molto bassi. E mi chiedo se queste mascherine rispettino gli standard qualitativi, mentre in Italia c'è ormai una produzione in quantità importanti».

Già, la qualità. Sono sicure ed efficienti le mascherine sul nostro mercato? «Dal punto di vista delle regole -accusa l'ingegner Renato Carrara, esperto di marcatura Ce che fa spesso da consulente per le fiamme gialle- è stato combinato un pasticcio: le mascherine cinesi sono per lo più ben fatte ma ce ne sono in giro per l'Italia miliardi, anche fatte in Italia, che non rispettano gli standard di sicurezza».

Colpa anche di un'ambiguità nel decreto Cura Italia di marzo che ha ammesso una deroga alla marchiatura Ce durante lo stato d'emergenza. «Una circolare del ministero della Salute -spiega Carrara- ha chiarito che i prodotti, anche senza il marchio stampato sopra, devono rispettare gli standard europei, tra cui la filtrazione minima del 95%. Invece si è interpretata la deroga come un via libera e ci sono in giro prodotti che filtrano il 70%». Secondo un'inchiesta di Striscia la notizia, ad esempio, non arrivano al 95% le mascherine prodotte da Fca, acquistate per 237 milioni da Arcuri e destinate alle scuole. L'azienda automobilistica ha risposto di aver rispettato gli standard dell'appalto ma non mancano lamentele, come quelle dell'ex grillino Gianluigi Paragone che in Senato le ha chiamate «mascherine-giarrettiera». Resta la domanda: perché dopo tanti mesi è ancora in vigore la deroga?

Una cosa è certa: il think tank Openpolis ha scavato per fare chiarezza sugli appalti e ha scoperto bandi pubblici per dispositivi di protezione per ben nove miliardi di euro (4 di Arcuri, il resto le Regioni) di cui 5,5 effettivamente aggiudicati. Un terzo di questa spesa immensa, cui va aggiunta quella dei privati, finisce all'estero.

E, soprattutto, nonostante la cifra incredibile e le vanteria di Arcuri («siamo stati straordinari») dopo nove mesi il mercato delle mascherine è ancora un rebus.

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