Cronache

Addio al "biondino" Riva. Milan, jet-set e bancarotta

Aveva distrutto l'impero industriale ereditato dal papà. Presidente rossonero dal '63 al '65, subito dopo Rizzoli

Addio al "biondino" Riva. Milan, jet-set e bancarotta

Quattro anni fa, all'inizio dell'estate, se ne era andato Gigi Rizzi, l'italiano che entrando nel cuore di Brigitte Bardot aveva fatto inorgoglire l'Italia intera (d'accordo, soprattutto noi maschi) come e più del gol di Tardelli alla Germania, nell'82. Due giorni fa, anche lui all'inizio dell'estate, se ne è andato anche Felice Riva, detto «Felicino». Un vezzeggiativo che gli calzava a pennello e lo aveva accompagnato per tutta la vita, dai Sessanta ruggenti la grande epoca dei playboy - fino ad ora, che di anni ne aveva impilati 82 e nessuno più si ricordava di lui. Sei necrologi di numero sul Corriere della Sera una miseria, una roba da signor Nessuno - per quello che era stato il «re di Milano» quando gli anni della Milano da bere erano di là da venire; e il commosso ricordo dei Moratti che gli furono affettuosamente rivali quando Felicino era presidente del Milan e se avesse voluto, il Berlusconi forse lo faceva lui, ante litteram.

Sempre che, per balordaggine, non si fosse infilato in una serie di rovinosi tonneau finanziari che ne fecero un carcerato (un mesetto, niente di che; anzi, un niente rispetto ai suoi epigoni di Mani pulite) e un uomo in fuga per il Medio Oriente. Fino al fastoso attracco alla Beirut degli anni Sessanta, allora la «Svizzera del Medio Oriente» che andava per la maggiore, tra i nababbi dell'epoca. Fu lì che Felicino, che era rimasto un signore nonostante il mandato di cattura internazionale, attraccò col suo motoscafo «Riva», uno splendore in mogano e acciaio che un tempo era il distintivo della gente «bene», da Saint Tropez a Santa Margherita, come la Rolls lo era per un gentiluomo del Sussex.

Di suo, Felice Riva non aveva fatto niente di che. Gli era bastato nascere in casa del proprietario del gruppo tessile Vallesusa, uno dei simboli del boom economico italiano: 30 stabilimenti e 15mila dipendenti. Cinque anni più tardi, di quell'impero erano rimaste macerie. Perduto anche il Milan, quello dei Rivera, degli Altafini e della prima Coppa dei Campioni conquistata a Wembley.

Nella Milano degli anni ruggenti, il «biondino» che si era diplomato dai gesuiti, al Leone XIII, il liceo dei ricchi milanesi, era stato personaggio. Soldi, donne e champagne. Una vita girando ai massimi, solcando col suo motoscafo la Costa Azzurra e dominando dall'alto dei suoi «danèe» i salotti di Milano.

Lui e Gigi Rizzi, che quando si fidanzò con Brigitte Bardot anche il Corriere della Sera diede la notizia in prima pagina, tra Dubcek e la primavera cecoslovacca. Felicino e Gigi, i due italiani che tutti avremmo voluto essere, nell'estate della nostra vita. Gigi con la Bardot, che gli altri 25 milioni di italiani maschi al massimo potevano mangiarsela con gli occhi. Felicino non gli era da meno, mostrandosi a San Siro o alla Scala con una sventola dietro l'altra.

Nel 1969, dopo il fallimento del «Vallesusa», Riva viene condannato a 4 anni di carcere per bancarotta fraudolenta. Lo prendono all'uscita di un cinema, in centro a Milano. Ma quell'arresto gli era già stato vaticinato su centinaia di volantini dai suoi ex dipendenti. «Il tuo posto è a San Vittore, non a San Siro», c'era scritto.

Ma in carcere il «biondino» ci resta pochi giorni. Mandato di cattura annullato per vizio di forma. Lui fiuta il vento, capisce che «non ce n'è più per nessuno», come confidò a un amico e parte: Nizza, Parigi, Atene, un va e vieni da Cipro, fino all'approdo a Beirut, dove arriva carico dei dobloni che era riuscito a salvare dalla bancarotta.

Comincia un esilio dorato, anche se i rovesci del destino e le amarezze della vita non lo risparmieranno. Cinquanta giorni di carcere anche in Libano, poi la separazione dalla moglie, la giustizia e i creditori che gli tengono il fiato sul collo. Ci mancava solo la guerra, che avrebbe trasformato la «Svizzera del Medio Oriente» in quella che è la Mosul dei nostri giorni. I grandi alberghi, le piscine, le ragazze-copertina, i cocktail e la vita extralusso di Felicino finiscono nella polvere della guerra. Torna in Italia nel 1982 e nessuno quasi se ne accorge. Gli indulti, le amnistie, la cittadinanza libanese ne fanno un uomo libero. Anche i suoi dipendenti, che lo volevano a San Vittore, se lo sono dimenticato. Lui si ritira a vivere a Forte dei Marmi. La sua consolazione sarà la figlia Raffaella, musicista, componente del «Gruppo Italiano» e collaboratrice di Gianna Nannini. E in Versilia chiude i suoi giorni.

Nel pomeriggio, sul sito ufficiale del Milan, ecco le condoglianze del club: «La memoria storica rossonera non dimentica l'ex presidente».

Sic transit, eccetera.

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