Afghanistan addio. E di corsa. Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, non ha certo perso tempo in indugi. E tanto meno in concertazioni e riflessioni. Ieri mentre il diplomatico americano Zalmay Khalilzad ipotizzava in un'intervista al «New York Times» un'intesa «di principio» con i talebani per il ritiro dei 14mila soldati americani, il nostro ministro sollecitava i vertici del Coi (Comando operativo interforze) a studiare il rientro dei 900 militari italiani sparsi tra Kabul ed Herat. Scordandosi d'informare un ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, che dichiarava di aver appreso dai media una decisione in cui riteneva di avere un qualche ruolo.
Dietro tanta fretta si nasconde la volontà politica, condivisa da M5S e Lega, di metter fine all'avventura italiana nel Paese degli aquiloni. Trasformare una volontà politica in decisione di governo con un'intervista al New York Times rischia, però, di rivelarsi azzardato. I primi a capirlo sono i leghisti. «Nessuna decisione è stata presa, ma solo una valutazione da parte del ministro per competenza» chiariscono fonti di Salvini prendendo così le distanze dal ministro Cinque Stelle. Ma fonti della presidenza del consiglio fanno sapere che la posizione della Trenta è stata concordata con Palazzo Chigi.
Intanto il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, giudica prematuro discutere il ritiro delle truppe dall'Afghanistan. «Ora occorre sostenere gli sforzi per trovare una soluzione pacifica». Gli americani ammettono di aver davanti almeno due pesanti incognite. La prima è su quali garanzie si basi l'impegno talebano a un cessate il fuoco durante il ritiro dei loro soldati. La seconda è la disponibilità di Kabul a un compromesso con degli insorti che, conclusa la ritirata statunitense, potrebbero replicare quanto fecero vietcong e vietnamiti dopo l'addio americano a Saigon.
Certo a Elisabetta Trenta e al M5S il destino del presidente afghano Ashraf Ghani può importare poco, ma rappresenta pur sempre un governo di cui per 18 anni ci siamo dichiarati alleati e a cui dal 2015 garantiamo l'addestramento di vari reparti operativi. Prima di annunciare la decisione d'abbandonarlo al suo destino sarebbe cortesia informarlo per via diplomatica. Se non altro per evitare che i già poco motivati soldati afghani assimilino dai loro addestratori, ovvero noi, una predisposizione al facile dietrofront. Senza dimenticare che almeno dal 2005 giochiamo un ruolo fondamentale in una regione dove la penetrazione talebana s'incrocia con quella iraniana. Accompagnare il nostro ritiro con un'azione diplomatica ci garantirebbe un ruolo politico di cui potremmo beneficiare in futuro. Chiarite queste formalità, che però in politica estera sono sostanza, la decisione di chiudere la nostra missione in Afghanistan per concentrare le nostre forze in quel Mediterraneo è sicuramente corretta dal punto di vista geo strategico.
L'impegno militare e la contrapposizione ai talebani ci sono costati - oltre alle vite di 54 militari e alle ferite inguaribili di almeno un altro centinaio - ben 8 miliardi di euro. Il tutto a fronte di pochi risultati visto che le strategie americane hanno reso impossibile sia fare la guerra ai talebani, sia stabilizzare il Paese.
Dunque tornare a casa e progettare un impiego su altri fronti dei soldati, dei mezzi e dei fondi impiegati in Afghanistan non è sbagliato. Sbagliatissimo sarebbe, però, farlo con tempi e modi capaci di distruggere la reputazione conquistata dai nostri militari e dal nostro Paese in 18 anni di sanguinoso impegno.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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