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Altro che rivoluzione verde. Pechino spinge sul carbone

Ordine alle miniere di alzare al massimo la produzione. Verifiche per garantire l'elettricità e il riscaldamento

Altro che rivoluzione verde. Pechino spinge sul carbone

Altro che transizione verde. Mentre noi sogniamo a occhi aperti e costringiamo premier e ministri a imbarazzanti bla-bla con Greta Thunberg e il suo codazzo di adolescenti illusi, la Cina ordina ai responsabili delle miniere di carbone d'innalzare la produzione ai massimi livelli. E si prepara, come sempre, a sputare nell'atmosfera più Co2 di quanta non ne producano Europa, Africa e America Latina messi assieme. Ovviamente tutti particolari rigorosamente omessi dal libro dei sogni dei sostenitori di Greta, sempre pronti a scordare che il più grande inquinatore globale non abita né in Europa, né in Occidente.

La conferma arriva dalle stesse autorità cinesi che giovedì scorso, dopo una riunione del Consiglio di Stato presieduta dal premier Li Keqiang, hanno ordinato a 51 miniere della regione dello Shanxi e a 72 della Mongolia Interna di operare alla massima capacità. «La commissione sul carbone - spiegano le agenzie cinesi - ha sollecitato le miniere ad aumentare la produzione senza compromessi e la stessa commissione verificherà che venga garantita la domanda di elettricità e riscaldamento per l'inverno».

Come dire bando agli indugi e, anche, alla promessa di attenersi ai Trattati di Parigi riducendo del 65% la produzione di energia legata al carbone. «Le autorità interessate devono dare priorità al trasporto del carbone per garantire che venga inviato dove è più necessario in modo tempestivo - spiega un documento del Consiglio di Stato - la fornitura di elettricità e carbone è fondamentale. Non ci deve essere alcun rallentamento nei nostri sforzi».

Ordini e direttive che ci fanno capire quanto le preoccupazioni per un'economia sostenibile siano lontane da una Cina preoccupata solo di mantenere l'egemonia produttiva. Un'egemonia messa a dura prova dalle indagini sulla corruzione nel settore minerario che nel corso dell'ultimo anno hanno rallentato o bloccato l'attività di molti stabilimenti minerari. Ma ora, dopo una serie di «black out» che hanno compromesso la capacità cinese di rispondere all'aumento della domanda globale ogni scrupolo è stato messo da parte. E persino il pretesto della corruzione, usato da Xi Jinping per ridimensionare e incarcerare i funzionari troppo potenti, o i privati troppo ricchi o poco controllabili, torna secondario rispetto alla necessità di ripristinare i consueti livelli produttivi. Livelli a cui corrisponderà un effetto serra di pari proporzioni. Un effetto serra di cui la Cina è da sempre la principale responsabile visto che fino al 2016 il carbone ha rappresentato il 69,9% delle sue fonti energetiche mentre i dati del 2018 le attribuiscono la produzione del 28,5% delle emissioni globali di Co2.

In tutto questo il carbone resta il principale propellente energetico di quelle acciaierie cinesi che garantiscono metà della produzione mondiale di acciaio e sfornano quantitativi che superano di cinque volte quelli delle industrie europee. Ma l'illusione più grave di chi sogna la transizione verde in Occidente è forse quella di poterla realizzare senza l'apporto di un'industria cinese che da una parte inquina più di chiunque sul pianeta, ma dall'altro detiene, a partire dalle batterie, tecnologie e materie prime indispensabili per garantire la realizzazione.

«Il rischio, ben chiaro ad americani ed europei - spiegava il segretario di stato americano Antony Blinken in un'intervista al Corriere - è che parte delle centinaia di miliardi di euro del Recovery Fund vadano in Cina, piuttosto che alle aziende europee».

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