C'è della perseveranza diabolica, nella telefonata che Matteo Renzi ha fatto l'altro pomeriggio al premier Gentiloni sull'aereo che lo riportava a Roma. Ce l'aveva con il ministro Padoan, il segretario Pd, e il suo ordine perentorio sulla vicenda bancaria sarebbe suonato a mo' d'ultimatum. «Digli di tirare fuori i soldi, altrimenti il governo finisce qui». Vera o meno che sia la ricostruzione nel complesso «salvataggio» delle banche venete (Veneto e Vicenza), poco importa. Perché quello del sistema bancario resta comunque il crac più clamoroso della parabola politica del leader di Rignano. Per i suoi effetti diretti e devastanti sulle tasche degli italiani, persino maggiore del rovinoso referendum che avrebbe dovuto cambiare l'assetto dello Stato. Se il lascito di quella sconfitta, in definitiva, è stato l'harakiri personale, i 31 miliardi di costo stimato dei (presunti) salvataggi delle banche in dissesto - da Mps a Etruria - peserà per decenni sulle casse del nostro erario e, dunque, ne saremo tutti investiti. Anche se la politica saprà gestire come sempre con estrema fantasia le soluzioni per non farcene accorgere, pagheremo tutto e pagheremo carissimo. Altro che merchant bank a Palazzo Chigi dei tempi dalemiani. A tale proposito, quando pochi giorni fa è stata varata la commissione bicamerale d'inchiesta («Ne vedremo delle belle», ha sempre detto Renzi riferendosi all'affaruccio della Banca del Salento che colpirebbe D'Alema) in pochi si sono accorti che di qui a fine legislatura assai poco si potrà appurare e capire. Di tempo non ce n'è e ridicolmente inverosimile suona il tweet rilanciato da Renzi: «Tanto lavoro da fare. Avanti». Avanti un corno. E non solo per le inchieste che riguardano Etruria. «Sulle banche i governi Renzi-Gentiloni hanno miseramente fallito, hanno sbagliato tutto, hanno agito con leggerezza e approssimazione» è il giudizio inclemente ma condivisibile del capogruppo forzista Brunetta, che pure si richiama al «senso di responsabilità». La situazione rischia di essere ancora peggiore di quanto ci si possa immaginare, e ripercorrere quanto accaduto dai mesi nei quali Renzi premier (sper)giurava sulla solidità degli istituti di credito servirebbe senz'altro a capire che cosa sia accaduto in questi terribili due anni. Non solo nell'ultima settimana, come chiede il governatore veneto Zaia, basito per l'inversione a «U» del governo, «passato da una ricapitalizzazione precauzionale da 1,2 miliardi alla vendita di due banche a un euro». E cosa sia successo anche nelle ultime 24 ore, visto che ieri il decreto è saltato, la soluzione-banca Intesa resta ancora in fieri e lo scaricabarile tra Nazareno, via XX Settembre e Palazzo Chigi in pieno svolgimento. «Negando la crisi, il Tesoro non è intervenuto quando era ancora in tempo per farlo», ricordava Brunetta. Parere comune di tutti gli esperti è che, muovendosi per tempo, si sarebbero limitati i danni. Invece gli interessi di bottega, che si tratti di elezioni prossime o l'anno buttato via per l'inutile referendum, hanno paralizzato colpevolmente Renzi (ora il sodale Gentiloni). L'«affare epocale», così lo definisce Brunetta, magari lo farà comunque alla fine Intesa.
Ma le scorie della bad company toccheranno ancora una volta a noi, ridotti a Cipputi di Altan. «Il primo governo che si è posto davvero il problema sul nostro sistema bancario è stato quello di Renzi», vantava il capogruppo Rosato. Peppino De Filippo buonanima avrebbe aggiunto: «Ecco, ho detto tutto».
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