Le interviste sono come il paso doble, la danza popolare spagnola che mima il rapporto tra toro e torero. Ci si guarda negli occhi sapendo benissimo che l'intervistatore vuole infilzare con le sue domande mentre l'intervistato risponderà il più delle volte a cornate. Con Giorgio Armani si rischia sempre di finire prima infilzati da una logica a prova di bomba e poi aperti in due da un uso spiazzante della verità.
Ho la fortuna di averlo provato alcune volte faccia a faccia nel suo studio affacciato su un bellissimo giardino nel cuore di Milano. Questa intervista esclusiva si è invece svolta a distanza, perché dobbiamo tutti restare nelle nostre case per fermare il contagio. Eppure stavolta ho sentito Re Giorgio più vicino che mai, come un padre preoccupato per tutti ma deciso a non perdere la testa. Conserverò gli appunti scarabocchiati vicino al telefono e le mail scambiate con la sua portavoce. Nell'ultima c'è scritto: «Il signor Armani ti abbraccia e spera di rivederti presto».
Lei ha 7620 dipendenti nel mondo e di questi 1475 sono in Cina, il Paese più colpito. Stanno tutti bene?
«Mi auguro proprio di sì. Cerco di avere aggiornamenti continui, perché anche oggi che la Giorgio Armani è un'azienda internazionale con diverse diramazioni, continuo a vederla come una grande famiglia di cui sono a capo. Il benessere dei miei dipendenti è una responsabilità che sento e che non prendo alla leggera».
Come mai ha deciso di sfilare a porte chiuse lo scorso 23 febbraio, quando il coronavirus per l'Italia era «solo» un problema serio e non la drammatica emergenza di questi giorni?
«Ponderatezza e cautela sono da sempre alla base di ogni mia decisione. Sono un imprenditore oltre che un comune cittadino: ho il dovere di proteggere i miei dipendenti, verso i quali sento di avere una grande responsabilità. Non bisogna poi dimenticare il rispetto dovuto a tutte le persone che lavorano per una sfilata, stampa e compratori inclusi. Insomma in un momento in cui la preoccupazione stava crescendo, ho preso una decisione ben ponderata. Ho cercato un'alternativa che non fermasse il sistema e tutelasse tutti. Non è stato un presentimento, ma una scelta saggia che ripeterei. Mi ha fatto molto piacere vedere come le mie decisioni vadano dritto al cuore delle persone. Sento che hanno fiducia in me e di questo sono molto grato».
Come si è sentito, solo davanti alla platea vuota e senza gli applausi del pubblico?
«È stato surreale. Mi era già capitato a Parigi, anni fa, di dover sfilare a porte chiuse, ma lì almeno i miei dipendenti erano il pubblico. Qui invece la platea era vuota, c'erano soltanto pochissime persone addette ai lavori. La consapevolezza di aver fatto la scelta giusta mi ha sorretto tutto il tempo».
Cosa pensa dei francesi che hanno sfilato ugualmente e senza alcuna precauzione fino al 3 marzo? Soprattutto cosa pensa dei buyer italiani che hanno continuato a fare la campagna acquisti a Parigi?
«Sapendo qual è stata la mia decisione e quali motivazioni mi hanno portato a prenderla, può immaginare cosa abbia pensato. Mi auguro solo che non ci siano ripercussioni, soprattutto perché tutte le persone coinvolte erano lì per lavorare».
Le piacerebbe che da questo dramma uscisse un po' di orgoglio italiano? Nel caso dove dovremmo incanalarlo?
«Sì, mi piacerebbe e sono sicuro che l'orgoglio alla fine uscirà, come sempre, nella nostra capacità di reinventarci nei momenti più bui. Vorrei fosse un orgoglio collettivo, sociale, capace di creare compattezza e unione. Vorrei che ne uscisse un'Italia più consapevole e meno individualista, in qualsiasi campo. Vorrei che prendessimo tutti in considerazione che forse è giunto il momento di rallentare».
Sono stati cancellati tutti i viaggi previsti per le cosiddette «cruise collection». Non pensa che l'emergenza del Coronavirus ci costringerà a ripensare sia i calendari sia i criteri di presentazione della moda?
«Cambierà, è inevitabile. Il ciclo della moda che comunica e basta, dell'intrattenimento fine a sé stesso, per ora si è dovuto fermare ma credo che anche in futuro saranno ridimensionati gli show faraonici e i viaggi. Io propongo di selezionare e ottimizzare. Secondo me, meno è sempre meglio».
Noi italiani abbiamo fatto 50mila test, la Francia che è il Paese europeo che ha fatto più test dopo di noi a oggi è a 1500. È fiero di questo comportamento delle nostre autorità sanitarie?
«Sì, lo sono. Questo atteggiamento trasparente ha sicuramente creato allarme, ma ci ha anche consentito di mappare con precisione una situazione davvero preoccupante, e di agire di conseguenza».
Avrebbe preso qualche precauzione per tutelare la nostra economia e nel caso quale?
«Il governo ha agito in uno stato di necessità ed emergenza: va rispettato per questo. Da imprenditore, anch'io ho dovuto prendere misure preventive. Non è mai facile farlo, ma quando è necessario bisogna assumersi tutte le responsabilità. Il resto lo dovremo fare dopo, tutti insieme».
Lei ha donato un milione e 250mila euro a 4 ospedali in prima linea per la lotta al Covid-19 e alla Protezione Civile. Ha modo di controllare come verranno usati questi soldi, se per fa fronte all'emergenza o per un eventuale vaccino?
«Ho fatto la donazione nella speranza che il denaro venga usato al meglio. Non devo controllare: ho la massima fiducia. Far fronte all'emergenza è una necessità assoluta e impellente, ed è normale che la maggior parte delle risorse andranno usate lì. Il vaccino è la speranza di più lungo termine, che mi auguro venga sostenuta con parte della mia donazione. Non nascondo che mi piacerebbe che anche altri contribuissero con donazioni, ma forse non mi basterebbe. Ritengo opportuno che aziende con grandi utili mettano a disposizione cifre importanti a sostegno della crisi e mi riferisco anche a società che gestiscono i media usando una parte degli introiti pubblicitari».
Lei è arrivato a Milano subito dopo la guerra e ha vissuto in prima persona il periodo della ricostruzione. Alla luce di questa sua esperienza, cosa consiglierebbe al sindaco Sala per rimettere in piedi la città?
«Io Milano l'ho scelta come luogo in cui vivere e lavorare per la sua forza e la sua vitalità. Con il suo spirito pratico, l'etica del lavoro e la grande generosità, ha sempre saputo reagire ai momenti difficili. Al sindaco Sala suggerirei di fare appello proprio a quello spirito per affrontare il dopo. Sarà necessario ricostruire subito, sostenendo, con incentivi ed energia, quel tessuto di operosità che appartiene a Milano e contribuisce al Paese tutto. Il mio è un invito ad aver fiducia restando uniti, perché come la storia ci insegna, dai momenti di profonda crisi nascono nuove opportunità. Bisogna avere pazienza, ma sono certo che Milano tornerà a essere la città che ho scelto. Io sono pronto a fare la mia parte».
I suoi dipendenti nella ex zona rossa ormai estesa a tutta Italia lavorano in remoto da due settimane. Come giudica questa esperienza?
«È complessa, ma educativa: mi sta dimostrando, giorno dopo giorno, che ci sono anche altri modi di lavorare, senza intaccare la produttività. Stiamo scoprendo un modo per forza di cose meno immediato, però efficace. Potrebbe anche comportare risparmi sui costi aziendali».
Lei dice sempre che l'unico vero lusso è il tempo. Dovendo stare per forza in casa, a suo parere si perde tempo o si guadagna in intimità e riflessione?
«Per chi come me è abituato ogni giorno a ritmi frenetici, trovarsi d'improvviso costretto all'immobilità è molto difficile. Ci vuole tempo per imparare a considerare la lentezza e la pausa come occasioni di intimità e riflessione, come un modo per nutrire di nuovo il pensiero. Credo sia questo l'insegnamento che questa brutta esperienza alla fine ci lascerà. Quando diventa necessario rallentare è importante. Lo sto imparando come tutti sulla mia pelle».
Cosa le manca di più in queste giornate d'isolamento?
«Lavorare a stretto contatto con i miei collaboratori. Il confronto reale, guardandosi negli occhi. E, sullo sfondo, il rumore di Milano che vive a pieno regime. Questo mi manca molto, ogni tanto fa proprio male».
Ha paura per sé e per i suoi cari?
«Sì, ho paura, come tutti credo. Ho paura per coloro che mi sono vicini ma anche per le persone sconosciute e lontane. Sono un essere umano, non una macchina».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.