Non solo i morti. Dodici vittime trucidate a colpi di kalashnikov nella redazione di Charlie Hebdo il 7 gennaio 2015, una poliziotta uccisa il giorno successivo a Montrouge, 4 ebrei colpiti a freddo al supermercato kosher della capitale l'8 gennaio. Non solo i morti, quelli del 13 novembre: 130 massacrati al concerto heavy metal del Bataclan, al ristorante etnico Le Petit Cambodge e al café Bonne Bière. L'anno degli attacchi più sanguinosi sul suolo francese dalla Seconda guerra mondiale è l'annus horribilis in cui la Francia scopre d'emblée, di colpo, che tutte le sue libertà sono sotto tiro perché Parigi è diventata per i jihadisti il simbolo della libertà dell'Occidente e dell'Europa. Più di New York, più di Madrid, più di Londra, più di Sydney. Dal 7 gennaio 2015 al 7 gennaio 2016, c'è un fil rouge che spiega l'accanimento con cui gli islamisti in dodici mesi gridano con un kalashnikov in mano «Allah Akbar», Dio è il più grande. È il segno che il terrorismo di matrice islamica ha scelto la Ville Lumière come principale terreno di guerra. Una guerra vera, che anche il presidente Hollande, dopo aver tentato di evitare inutili psicosi e nel tentativo di tenere a bada i rischi di una diffidenza crescente nei confronti della comunità islamica e araba di Francia, sgomento ma lucido dopo le stragi del 13 novembre, chiama anche lui con il suo nome: g-u-e-r-r-a.Guerra è da un anno esatto a Parigi. Guerra militare, con i kalashnikov, le bombe, le cinture esplosive, interi quartieri ostaggio dei terroristi. Ma anche guerra di simboli, di suggestioni, di valori e di libertà. Dagli attacchi coordinati, ai lupi solitari come il marocchino entrato in azione sul Tgv ad agosto fino ai due studenti parigini pronti a colpire la comunità ebraica e le chiese delle banlieue parigine, la Francia è minacciata e colpita in ogni sua manifestazione di vita. Dalla redazione di un giornale satirico, alla partita di calcio che costringe il presidente Hollande alla fuga, passando per i ristoranti e i concerti, fino al commissariato di rue de la Goutte d'Or. Mentre i francesi cominciano a convivere con la paura come a Tel Aviv o a Gerusalemme, i simboli del pensiero libero, dissacrante, provocatorio, e persino i professori che osano denunciare l'estremismo nelle scuole islamiche del Paese, sono costretti a vivere vite blindate: l'uso del cellulare diventa un lusso, la diffusione dell'indirizzo della sede di lavoro un rischio troppo alto, la pubblicazione di un libro una provocazione che può mettere a repentaglio l'incolumità e l'esistenza di molte persone. L'annus horribilis di Francia è l'anno in cui Michel Houllebecq finisce sotto scorta per un romanzo che racconta il lento e impercettibile arretrare della cultura occidentale a Parigi ed è l'anno in cui Soufiane Zitouni, docente di filosofia, viene condannato per diffamazione dopo aver denunciato l'integralismo religioso impartito in un liceo e deve tribolare per convincere un editore a pubblicare il suo nuovo libro. L'annus horribilis di Francia è l'anno in cui, per non urtare la sensibilità delle frange più integraliste dell'islam, festival, musei e cinema cambiano le programmazioni, gli artisti, i produttori e gli editori ritirano le opere sul mercato. L'installazione dell'artista franco-algerina Zoulikha Bouabdellah - 28 scarpe con tacco a spillo distribuite su altrettanti tappeti a simboleggiare la preghiera in moschea - viene smantellata in Hauts-de-Seine, alle porte di Parigi, per le proteste della Federazione delle Associazioni musulmane e poi ripristinata, ma solo dopo aver attrezzato il luogo con adeguate misure di sicurezza. «Non si può ridere di tutto» - On ne peut pas rire de tout - l'ultimo spettacolo dell'umorista Patrick Timsit, dal titolo evocativo quanto il Sottomissione di Houellebecq, deve rinunciare ai manifesti pubblicitari perché il comico appare nei poster con una bomba in mano e «non si può urtare la sensibilità delle persone dopo gli attentati». E poi programmazione annullata e infine ripristinata diverse volte anche del lungometraggio Timbuktu del franco-mauritano Abderrahmane Sissak, che nella pellicola racconta il terrore imposto dagli islamisti nella città del Mali, il Paese dove la Francia è impegnata dal 2013 in un'operazione militare per arginare gli estremisti islamici.L'attore e umorista britannico John Oliver, dopo il 13 novembre 2015, in un memorabile sketch televisivo sull'americana Hbo, l'ha chiamata la guerra a Jean-Paul Sartre, a Edith Piaf, alle Gauloises, al camembert, a Camus, ai macaron e a Marcel Proust. È la guerra contro la cultura e lo stile di vita dei francesi.
Che sono anche i nostri, un patrimonio dell'umanità. La «filosofia di rigorosa auto-abnegazione» dei terroristi da una parte, le libertà, l'illuminismo e più banalmente il formaggio e la pasticceria dall'altra. Twitter: @gaiacesare- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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