Non è un Paese per gelatai

In un anno persi 76 milioni di litri e quote di mercato Eppure nel mondo siamo considerati i maestri del cono

Non è un Paese per gelatai

Negli Stati Uniti lo chiamano come da noi, «gelato», in italiano, per distinguerlo dall'ice-cream, più grasso e cremoso. A dimostrazione del fatto che il dolce per antonomasia dell'estate è un'eccellenza italica, come il caffè e la pizza, a cui il made in Italy fornisce tradizioni, armamentario e vocabolario.

Eppure non sempre il magistero corrisponde a un effettivo primato. Da anni gli statunitensi consumano più pizze di noi (secondo Italmopa, l'associazione industriali mugnai d'Italia, 13 chili pro capite l'anno contro i nostri 8 chili), magari con impasti senza gloria e con ingredienti che da noi finiscono generalmente nelle macedonie (e poi, chiamare il salame «pepperoni»...). Nel caffè siamo secondo le statistiche al diciottesimo posto per consumo pro capite annuo, con 3,4 chili, ben distanti dalla Finlandia al primo posto (9,6 chili), dalla Norvegia al secondo (7,29 e dai Paesi Bassi terzi (6,7) e dietro anche a Slovenia e Croazia. E ora anche sul gelato dobbiamo incassare un duro colpo: in due anni, dal 2016 al 2018, siamo scesi dal primo al terzo posto nella classifica della produzione annua di gelato artigianale. Nel 2016 le nostre gelaterie riempivano coni e coppette con 595 milioni di litri di prodotto, mentre la Germania ne produceva 515 milioni e la Francia 454 milioni. Nel 2017 la Germania è passata al primo posto con 517 milioni superandoci di poco con i nostri 511 milioni e staccando la Francia a 466. E nel 2018, secondo i dati diffusi pochi giorni fa e ripresi ieri da Coldiretti, siamo terzi con 435 milioni di litri idetro tedeschi (494) e Francia (451).

Non c'è bisogno di essere Pitagora per accorgersi del fatto che il sorpasso da parte dell'asse della stracciatella Berlino-Parigi è più frutto di un nostro calo produttivo che di un exploit dall'altra parte delle Alpi. Anzi, anche i tedeschi e i francesi sono leggermente arretrati. Ma noi molto di più. In soli due anni la produzione di nocciola, gianduia e fragola è scesa del 36,8 per cento. E il nostro peso nella produzione complessiva di gelato artigianale tra gli (ancora) 28 Paesi dell'Ue è passato dal 19 al 13,7 per cento.

Le spiegazioni di questa bizzarria sono molteplici. Intanto il calo produttivo corrisponde a una crescita qualitativa. Per certi versi il gelato homemade in Italia non se l'è mai passata così bene, con un fiorire di artigiani attenti alla lavorazione, alle materie prime, alle ricette, alla freschezza. Esistono gelaterie gourmet, gelaterie agricole, gelaterie che non utilizzano latte o uova, gelaterie vegane. Certo, va anche detto che molti non sono artigiani puri: per pochi coraggiosi gelatai che usano solo ingredienti freschi e preparati in casa, spesso materie prime locali e con marchi di tutela, molti ricorrosno alle scorciatoie delle miscele di addensanti ed emulsionanti, delle puree di cioccolato, pistacchio e altro, dei semilavorati se non addirittura composti forniti dalle industrie a cui si limitano ad aggiungere acqua e latte. Se è questo prodotto che sta perdendo terreno, beh, non abbiamo che da gioirne.

Altro motivo del sorpasso franco-tedesco, è paradossalmente provocato dal nostro stesso successo. Il gelato viene considerato parte integrante del nostro stile di vita e per questo ampiamente imitato.

Caso di scuola è Amorino, una gelateria italiana per «genitori» (gli amici reggiani Cristiano Sereni e Paolo Benassi) e ispirazione (per la verità un'Italia un po' troppo leziosa), che però ha sede e laboratorio a Orly, vicino a Parigi e che distribuisce in tutto il mondo - e anche in Italia - tonnellate di gelato già confezionati che i dipendenti dei vari negozi si limitano a servire. Quello è tutto gelato di passaporto francese che però ha il «cuore» italiano. Per dire.

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