«I partiti non possono essere regolamentati come associazioni bocciofile, serve una legge che attui l'articolo 49 della Costituzione, non bastano poche e scarne norme del codice civile». Giovanni Maria Flick, giudice emerito della Corte costituzionale ed ex ministro della Giustizia, commenta così il provvedimento del tribunale civile di Napoli che, accogliendo il ricorso di alcuni iscritti al M5S, annulla in via cautelare due delibere che modificavano lo Statuto per eleggere presidente Giuseppe Conte.
Professore la decisione del giudice di Napoli che decapita il M5s insegna che il giustizialismo si ritorce contro chi lo sostiene?
«Non credo si possa dire questo. Una cosa è la svalutazione o sottovalutazione delle garanzie in un procedimento penale e altra cosa è il mancato rispetto di poche norme di carattere civile che oggi sono l'unica base dell'organizzazione dei partiti. Il problema è, appunto, che attualmente la vita dei partiti politici è disciplinata da poche norme del codice civile sulle associazioni non riconosciute. Doversi rivolgere ad un giudice civile per l'interpretazione dello statuto di partito è qualcosa che lascia perplessi. Anche perché il giudice interviene quando ci sono diritti riconosciuti da far valere, ma qui la situazione è molto vaga, consente interpretazioni diverse e quindi può dar luogo ad una guerra di ricorsi».
Il provvedimento è giustificato dall'esclusione dalla votazione di oltre un terzo degli iscritti e dal mancato raggiungimento del quorum: è un segnale che la presunta democrazia diretta su piattaforma digitale non funziona?
«Non conosco le premesse di questo caso, né le regole privatistiche che lo riguardano. Sicuramente, però, l'uso degli strumenti digitali allarga il campo ad una serie di nuovi rapporti dei partiti con i social e degli utenti del web tra di loro. È una realtà complessa, che va regolamentata in modo ampio. L'insufficiente presenza di norme porta alla necessità continua dell'intervento di un giudice in caso di conflittualità e ce n'è parecchia, come si dimostra».
Perché non si è mai voluta su questo punto una regolamentazione secondo la Carta costituzionale e ci si è affidati al codice civile?
«Si temeva un'eccessiva possibile ingerenza nell'ambito dell'organizzazione e del funzionamento dei partiti e, per impedirla, si è lasciato tutto così per 75 anni. È stato un po' miope non pensare che i partiti avrebbero assunto dimensioni e ruoli che avrebbero reso molto opportuna una organizzazione su base democratica della loro vita».
Da chi sono venute le resistenze?
«Da tutti i partiti, che avrebbero potuto dettare delle regole più precise nell'ambito della Costituzione, ma non hanno voluto farlo. Adesso mi pare che questo errore stia maturando la consapevolezza che l'attuale crisi dei partiti richiederebbe una regolamentazione adeguata ai tempi, ma non so quanto sia possibile introdurla ora, in una situazione così difficile. La crisi dei partiti si è evoluta e le difficoltà crescono».
Per cambiare le cose non servirebbe una riforma costituzionale...
«No, basterebbe una legge che attuasse l'articolo 49 della Carta in cui si definiscono i partiti come associazioni libere dei cittadini per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. E quindi hanno bisogno di un' organizzazione, come previsto anche per i sindacati.
Oggi, invece, la situazione dei partiti è paragonabile a quella di associazioni bocciofile o in genere di associazioni sportive e questo è problematico, può dar luogo a discussioni che riguardano anche le conseguenze economiche, visto che sono in gioco notevoli interessi».
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