Mentre l'Italia si domanda come ripartire dopo la quarantena, sembra che il destino dell'Università pubblica non interessi a nessuno e che la sua vita possa rimanere sospesa, nel mondo virtuale in cui è stata relegata, a causa del coronavirus. Gli atenei sono sprofondati nel sonnolento ruolo che è stato assegnato loro dal governo: svolgere la docenza da casa, con lezioni e esami per via telematica, con una decisione presa dal ministero senza il rispetto della autonomia degli atenei e senza un concreto supporto. È vero che con questo esperimento online siamo riusciti a mantenere le sessioni di laurea, gli stessi orari delle lezioni pensate per l'aula o videoregistrate. Ma ci siamo scontrati con una triste realtà: in intere aree del Paese molte famiglie, con un reddito basso, prive di attrezzature informatiche adeguate, non sono riuscite in breve tempo a colmare il gap digitale. Ecco perché bisogna garantire che le tecnologie utilizzate non escludano nessuno. Se la didattica a distanza può rappresentare un'alternativa per l'oggi ed un ausilio aggiuntivo per il domani, essa tuttavia non può risolversi nella semplice trasposizione online del metodo di studio in presenza. Ma soprattutto la didattica virtuale non può sostituirsi tout court alla didattica in presenza. L'Università è prima di tutto una comunità, da vivere negli spazi e nei luoghi reali e non in quelli virtuali, altrimenti perderebbe la propria identità di piazza del sapere. Ciò è tanto più vero per le attività di laboratorio e per le tesi sperimentali.
Per questo caro ministro, non può pensare, in base alla situazione attuale, che le aule restino chiuse a ottobre e l'Anno Accademico cominci di fatto solo nella primavera del prossimo anno, come riportato in una circolare sul postlockdown del 14 aprile: si genera cosi solo incertezza nelle famiglie. Si deve perciò fare di tutto per riprendere le lezioni in presenza sin dall'inizio del nuovo semestre, garantendo semmai la didattica in remoto per gli studenti fuori sede e in difficoltà economica. Come sarebbe altrimenti possibile riprendere le attività laboratoriali e di ricerca, oppure quelle discipline impossibili da insegnare unicamente a distanza? Ed è abbastanza paradossale riaprire le librerie e tenere chiuse le fabbriche del sapere. Mentre in altri paesi le lezioni tradizionali stanno già in parte riprendendo: un nostro ritardo, come uno analogo nella ripartenza delle attività produttive, finirebbe per assicurare un ulteriore e indebito vantaggio a sistemi universitari di altri paesi. E anche il Cun il 17 aprile ha richiesto il ritorno, nel più breve tempo possibile, alla didattica in presenza. Non si lasci tutto il peso organizzativo ed economico sulla buona volontà delle singole Università. Occorre pensare a soluzioni innovative, a contingentare l'accesso agli spazi comuni, con la previsione di una ventilazione o aerazione continua dei locali, e di un tempo ridotto di sosta all'interno di questi spazi, con il mantenimento della distanza di sicurezza. Non vorremmo Università chiuse ma aperte tutta la settimana. Al tempo stesso occorre porsi il problema del costo di sorveglianti, sanificazioni, mascherine. Su chi graverà? Solo sui magri fondi del Finanziamento ordinario di ogni singolo ateneo? Questa deriva porterebbe alla fine dell'Università pubblica, che rischierebbe di diventare un'Università telematica, al pari di quelle già esistenti, e spianerebbe la strada alla sua privatizzazione.
Agata Cecilia Amato (Roma Tor Vergata), Paolo Becchi (Genova), Carlo Andrea Bollino (Perugia), Olga Bortolini (Ferrara), Dario Caroniti (Messina), Giuseppe Cecere (Bologna), Omar Chessa (Sassari), Annamaria Colao (Napoli Federico II), Aniello Crescenzi (Basilicata), Renato Cristin (Trieste), Ylenia De Luca (Bari) Melchiore Giganti
(Ferrara), Stelio Mangiameli (Teramo), Lauretta Maganzani (Milano Cattolica) , Francesco Milazzo (Catania), Spartaco Pupo (Calabria), Aurelio Tommasetti (Salerno), Giorgio Zauli (Ferrara), Enrico Zio (Milano Politecnico)
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