Da quando a Roma le hanno appiccicato l'onoreficienza di «Roma Capitale» mi pareva una bufala. Se così avrebbe dovuto essere, nella realtà, Roma adesso sarebbe una sorta di Città Stato a capo di una nazione oliata e efficiente come l'Italia per diritto dovrebbe ambire da sempre. Ma nel frattempo da «Capitale» è nata «Mafia Capitale»: una mozzarella di bufala prodotta con latte in polvere. Si è creato un teorema, un progetto giudiziario, ideologico, nel chiuso delle menti degli architetti del disegno stesso vergando migliaia di pagine che non avrebbero sostenuto alcuna discussione di Laurea. Poi la Cassazione cancella. Era stupido come il gioco delle tre carte, credere che «un vecchio camerata» (è lui che si è espresso così) come Massimo Carminati, un uomo che fa il saluto romano di fronte ai cristalli blindati della sua celletta, sia il Totò Riina di una città che mi ostino a dichiarare «invisibile» per i quintali di souvenir che la soffocano e i turisti allo sbando che per vedere il Colosseo lo contemplano da Google. I nuovi fagottari, come i nuovi criminali. Dei Casamonica (certo non stinchi di Santo) manca solo il film del tanto citato e raccontato funerale con carrozza, cavalli e elicottero. Ma cosa si vuole pretendere da una città che mi trafigge al ricordo di quando si asserragliava nei suoi quartieri come fosse arpionata ai Sette Colli, ora che è una melassa: uno dei cadaveri che un tempo rinvenivano bruciati nel Tevere? E' la Grande Bruttezza che nutre mute di cani armati di contelli e Magnum 357. La pistola dei veri banditi e non dell'ultimo film sbronzo di Quentin Tarantino. Ogni giorno c'è un morto ammazzato: a Ostia sbagliano bersaglio o mira e si fumano un giovane nuotatore che rimane saldato alla sedia a rotelle; un carabiniere viene accoltellato come dopo una partita di dadi andata a schifio; Diabolik, il capo degli Irriducibili laziali, viene freddato chirurgicamente mentre sta seduto su una panchina del Parco degli Acquedotti dove là, a cento metri, Sorrentino girò la scena di Gambardella nella «Grande Bellezza» (ma de che!). Luca Sacchi, bam bum bam, fatto fuori all'Appio Latino. L'altro giorno ero dietro via Frangipane, dove c'è la mitica palestra di boxe «Audace». Ero con un amico libertario, mai un velo di razzismo. A un certo punto l'ha puntato un vespone con in sella due visi gialli (lo dico come stessi scrivendo una sceneggiatura dei settanta). Di sicuro un indiano e un pachistano (quindi neanche visi gialli). Il pilota ha urlano «Leveteeeee!». Il mio amico libertario è saltato rispondendo: «Ci passa pure un Tir!». No, per dire: Una Roma scarabocchiata, anzi, una matassa di ferro spinato. Per scherzo ho detto al mio amico: «Ma che sei razzista?». Lui: «Sì». Ecco Roma come ti spinge a difenderti.
Si ammazza al volo come si tira al piattello. Neppure ai tempi dei fratelli Castellani, Er Bavoso e Er Bavosetto era così; neppure ai tempi del più Grande criminale di Roma (tutto prima della Magliana), protagonista del mio prossimo romanzo era così. Neanche con lui che diceva dei suoi complici: «Alla fine mi sono ritrovato con una banda di scopini». Le possibilità sono due. Una è quella che i neuroni criminali sono senza fissa dimora, cioè non stanno nel cervello (riproducono con le loro gesta il caos della città); oppure piano piano si andranno a organizzare per ricomporre una vera e propria nuova generazione criminale.
É anche questione di rete. Se la rete da pesca è bucata in cento punti, i pesci l'attraversano e si riperdono nel mare. Se la rete non ha smagliature pesca i pesci. Dunque la domanda è questa: Roma che rete vorrà e saprà diventare?
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