Cronache

Caso Eni, De Pasquale (indagato) non molla. Ricorso contro le assoluzioni del processo

Oltre 120 pagine per contestare la sentenza: "Trattato come un caso bagatellare"

Caso Eni, De Pasquale (indagato) non molla. Ricorso contro le assoluzioni del processo

Milano. L'aggiunto Fabio De Pasquale non intende mollare. Nel pieno della bufera che sta investendo la (ex) gloriosa Procura di Milano e dei guai che lo vedono, insieme al pm Sergio Spadaro, indagato a Brescia e - parrebbe - oggetto di istruttoria disciplinare del pg di Cassazione deposita il ricorso in Appello contro la sentenza Eni-Nigeria. Proprio il procedimento che gli ha portato le peggiori grane che una toga possa avere. De Pasquale chiede di ribaltare la decisione del Tribunale che il 17 marzo scorso ha assolto, «perché il fatto non sussiste», tutti i 15 imputati per la presunta maxi tangente Eni. Tra gli imputati, l'ad Claudio De Scalzi e il predecessore Paolo Scaroni. Anche la parte civile, il governo nigeriano rappresentato dall'avvocato Lucio Lucia, ha fatto ricorso.

Il deposito dell'impugnazione arriva a ridosso della scadenza dei termini. Il procuratore aggiunto ha scritto 123 pagine per contestare, punto per punto, le motivazioni della Settima sezione penale, presieduta dal giudice Marco Tremolada. Per il Tribunale, non è stata raggiunta la prova della presunta corruzione del colosso petrolifero per ottenere le concessioni sul giacimento Opl245. Eppure De Pasquale avrebbe ben altro cui dedicarsi, per difendersi dalle accuse della Procura di Brescia, che lo indaga per rifiuto di atti d'ufficio proprio perché avrebbe tenuto per sé fondamentali prove a favore degli imputati nel processo poi perso. Non solo. Avrebbe usato in modo selettivo i verbali di Piero Amara, per altri versi dalla stessa Procura ritenuti non degni di approfondimento, per denunciare a Brescia il giudice Tremolada (poi archiviato) come «avvicinabile» dalle difese. Per la vicenda, che ha causato in Procura uno scisma senza precedenti, il pg di Cassazione potrebbe chiedere al Csm di cacciarlo da Milano, come ha già fatto per il pm Paolo Storari, la cui udienza è fissata per oggi. Se non bastasse, è emerso che nel marzo 2020 in un documento molto critico 27 pm milanesi sottolineavano che il dipartimento Affari internazionali e reati economici transnazionali, guidato da De Pasquale, «avrebbe meritato» una «illustrazione analitica delle attribuzioni, del peso, dell'andamento dei flussi di lavoro e dei risultati», mentre «nulla è possibile carpire» dai numeri forniti sull'attività del pool.

In sostanza nel ricorso l'aggiunto sostiene che i giudici della Settima hanno trattato il caso «come se fosse una storia bagatellare». Per De Pasquale, il Tribunale porta argomenti «veramente esili» e «illogici», con «gravi svalutazioni» delle prove e in certi passaggi fornisce una «ricostruzione unidimensionale». Sul teste-imputato Vincenzo Armanna, che i giudici dichiarano «non attendibile», animato «da intenti ricattatori» e autore di dichiarazioni «generiche, contraddittorie e non riscontrate», l'aggiunto ribadisce che «gran parte del suo racconto è non solo vero, ma pacificamente vero». E che il Tribunale ricorre a un escamotage per screditarlo: in caso di «circostanze su cui Armanna è stato pienamente riscontrato» succede che «affermi che la circostanza è sì vera ma ha una sua spiegazione lecita, ovvero che non è rilevante, o che è parzialmente vera». Sul video, «dirompente» per i giudici, in cui Armanna afferma di voler infangare l'azienda e che i pm - è l'accusa della Corte - hanno tenuto nascosto: De Pasquale dichiara che la Corte stessa aveva deciso di non ammetterlo, perché rientrava in un'altra inchiesta in corso (sul «complotto» Eni); che i difensori già ne conoscevano il contenuto; che l'intento calunniatorio del teste non si deduce dal video, ma ha origine nella «percezione soggettiva del giudicante». La videoregistrazione, si conclude, non può diventare «l'arma micidiale che distrugge un intero processo».

Fa sapere infine Eni che «conferma la propria totale estraneità rispetto ai fatti contestati e ripone la massima fiducia che la magistratura giudicante in Appello possa rapidamente confermare le conclusioni raggiunte nell'ambito del primo grado».

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