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Il Cda Rai è una stanza senza bottoni

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Roma - Dopo Michele Santoro anche Giovanni Minoli ha mandato ai presidenti di Camera e Senato il proprio curriculum per l'elezione a consigliere di amministrazione della Rai. «Se vale il merito - debbono aver pensato i due personaggi - chi più di noi può rivendicare il diritto a guidare il servizio pubblico radiotelevisivo?». La considerazione non è affatto peregrina. E potrebbe spingere altri personaggi dalla lunga e grande storia televisiva alle spalle a seguire l'esempio di Santoro e Minoli.

Perché loro sì e Pippo Baudo o Maurizio Costanzo no? E Mentana? E Mimun? E Gabanelli? E tutti quelli che nel corso degli anni si sono succeduti alla guida di reti e Tg o hanno condotto programmi di successo entrando nel cuore e nella mente degli italiani? E Renzo Arbore? E Piero Angela? E Mara Venier? E Milly Carlucci? Prima che l'elenco diventi infinito saturando gli uffici dei presidenti di Camera e Senato, da consigliere di amministrazione della Rai in scadenza mi permetto di rivelare ai tanti possibili candidati che il Cda della Rai è diventato come le stagioni. Che non sono più quelle di una volta. Santoro e Minoli pensano che finalmente collocati al settimo piano di viale Mazzini la loro esperienza e la loro autorevolezza li metterà in condizione di fare la rivoluzione. Ma non è così. Nella stanza dei bottoni non ci sono bottoni. Una legge di riforma fatta quando Matteo Renzi era convinto di vincere il referendum e poter avere il controllo esclusivo della Rai con l'elezione dei Cda da parte di una maggioranza parlamentare blindata, ha attribuito al direttore generale trasformato in amministratore delegato la piena e totale governance dell'azienda. I consiglieri svolgono una funzione di controllo e di indirizzo. Il che significa che non sono più quelli dei tempi della lottizzazione in cui ognuno gestiva la propria fetta di potere su reti, Tg, nomine e promozioni. Oggi non toccano palla in un gioco che riguarda il solo dg-ad di diretta emanazione del governo.

Controllare ed indirizzare, ovviamente, non è poco. Ma non è sufficiente a fare nessun tipo di rivoluzione. Che chi si è trovato «per caso» a finire nel Cda avrebbe volentieri realizzato ma che non ha potuto fare limitandosi ad imparare una semplice lezione. Se si vuole cambiare la Rai si deve necessariamente cambiare la legge. Non per tornare al passato ma per rendere il servizio radiotelevisivo pubblico lo specchio pluralista del paese e non lo strumento di consenso del governo di turno.

Naturalmente non mi permetto di spegnere i sogni rivoluzionari di Santoro, Minoli e di quant'altri. Consiglio solo di indirizzare i sogni verso un obbiettivo concreto. Quello di ingraziarsi il governo di turno per essere nominato direttore generale-amministratore delegato. Qualche sognatore ha esperienza in materia!

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