Coronavirus

"Chiudo il reparto Covid mi sento un soldato"

Milano, 2 mesi in trincea al Policlinico

Medici in corsia contro il Covid (La Presse)
Medici in corsia contro il Covid (La Presse)

È un diario dal fronte. Scritto dall'ultimo soldato rimasto a sgombrare il campo, a raccogliere le armi lasciate a terra, i corpi, i messaggi che si agitano nella polvere e le fotografie di quelli a casa, a vedere l'orizzonte lasciato vuoto dal nemico, che se n'è andato ma senza battere in ritirata. Non è un caso se nel suo meraviglioso post su Facebook si paragoni ad un soldato Andrea Artoni, medico del Policlinico di Milano, mentre racconta la sua ultima notte nel reparto Covid che, dopo due mesi di emergenza, chiude. I letti vuoti e le luci crude: ci si può sbavagliare, adesso. Dopo troppi giorni di bocche socchiuse e grida fredde a dar notizie che non si volavano dare. «La sensazione è un po' quella dei soldati giapponesi che si rendono conto dopo anni che la guerra è finita. Ci sentiamo anacronistici e un po' fuori luogo sotto le nostre mascherine, doppio guanto, doppio camice visiera e cuffia. Abbiamo paura di disturbare la narrativa corrente, ottimismo e ripartenza».

Emette onde medie di fatica, come una radio libera: «C'è anche una certa dose di stanchezza. Due mesi e mezzo di questa vita è fisicamente pesante. Non si stacca mai, a un certo punto l'adrenalina finisce. Siamo in riserva e iniziamo a perdere qualche pezzo per strada. È stato un periodo emotivamente intenso e difficile. Troppi morti. Troppo carico su di noi. Troppe volte sentirsi dire dal marito confinato a casa tenga per me la mano di mia moglie e le dia una carezza per me. Ci siamo commossi tutti tante volte, anche quelli che fanno i duri e i burberi. Ognuno ha adottato dei parenti e cercato via telefono di instaurare un rapporto, professionale e affettuoso. Le telefonate emotivamente difficili le facevamo nel nostro giardino degli ulivi, me le ricordo tutte, una a una. Tante decisioni difficili. I pazienti che avevano speranze su cui investire e quelli che no, arriviamo al massimo fino a qua. Tante tante volte». Lui e i suoi pazienti assieme, a combattere contro il corpo che per ognuno è diventato un avversario: quello del medico perché stravolto, quello dell'ammalato perché abitato dal virus. «Penso possiamo essere orgogliosi del lavoro che abbiamo fatto assieme. Abbiamo affrontato questa cosa mostruosa e inaudita e in poche settimane siamo riusciti a dare un senso, stravolgendo il nostro modo di lavorare. Resilienza umiltà umanità lavoro di gruppo, così l'abbiamo tirata fuori - scrive Artoni - Non solo io mi sento il soldato giapponese, ma se guardo gli ultimi pazienti sono davvero dei reduci. Due li ho accettati io la prima notte, all'inizio di marzo. Sono ancora qua. Uno è ormai la mascotte del reparto, tossicodipendente, senza fissa dimora, in questi due mesi ci ha sfinito di storie assurde. Mangiando una media di 5 budini al giorno. Anche per lui abbiamo fatto qualcosa. Notizia di due ore fa che il reparto chiude. È finita questa fase. Passiamo dal rosso al grigio. Emozione. Lunedì ci troviamo a fare la foto tutti assieme. Colleghi da una vita e amici nuovi. Sarà un legame che rimarrà. Vi porterò tutti nel cuore come porterò dentro i pazienti, sono stati davvero il motivo e la forza che ci hanno fatto andare avanti, malgrado alcune scellerate scelte di chi ci doveva amministrare. Queste pagine sono state terapeutiche per me. Spero davvero di non scrivere mai più di Covid». Si sgombra il campo.

Più che miracoli da santi, sono miracoli da uomini.

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