«So cosa vuol dire sopravvivere agli attentati. Il cervello smette di funzionare, diventi incapaci di sviluppare una riflessione intellettuale su quello che sta accadendo. Sei completamente paralizzato dal dolore. Eppure tutti sono lì a chiederti riflessioni e commenti quando tu non riesci nemmeno a mettere una parola dietro l'altra. Ma è il dopo-attentati la parte più difficile. Quando si spengono i microfoni». Perciò dopo gli attacchi al Bataclan, Zineb El Rhazoui ha preso carta e penna, incontrato i sopravvissuti della strage, i parenti delle vittime e pure il fratello di uno degli attentatori, Houari Mostefaï, e scritto «13, Zineb racconta l'inferno del 13 novembre» (pubblicato in Francia per edizioni Ring). Un resoconto violento, a tratti truce, di quella tragica notte parigina attraverso le testimonianze dei superstiti. «Non era possibile fare altrimenti. Il terrorismo è questo».
Scampata anche lei per una casualità alla strage del 7 gennaio 2015, la giornalista e sociologa delle religioni (che a Charlie Hebdo era l'esperta di islam e ora vive perennemente sotto scorta), una volta superato lo choc ha voluto fare il suo lavoro, quello di reporter. Accanto alle vittime «per guarire e aiutarle a guarire. Per accendere i microfoni quando tutti li spengono. E concedere a loro lo stesso orecchio che avrei voluto io quando lo choc ha smesso di paralizzarmi».
Cosa ha trovato nei superstiti? Paura? Spirito di vendetta? Odio?
«No, non ho visto odio. E d'altra parte è un sentimento che non ho provato neanch'io né i miei colleghi sopravvissuti a Charlie Hebdo. Pensi che ancora fatico a distinguere in fotografia i due fratelli Kouachi che hanno trucidato la mia redazione. È come se fossero persone astratte. Eppure attenzione: odio no, ma rabbia sì. Rabbia che le cose si ripetano e non venga fatto nulla, che dopo tutte le promesse continuiamo a essere al centro di nuovi attentati».
Da allora lei e gli altri sopravvissuti vi sentite più protetti o più in pericolo?
«Decisamente più in pericolo. Perché le autorità dei nostri Paesi, in Francia e non solo, pensano che il terrorismo si combatta solo sul piano della sicurezza. Abbiamo lasciato agire indisturbati questi criminali ideologici, i fascisti dell'islam (come li chiama nel suo ultimo libro Détruire le fascisme islamique, edizioni Ring, non ancora in Italia). Ma non possiamo combatterli come criminali comuni».
Come si affrontano i terroristi sul piano ideologico?
«Come fu fatto dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando abbiamo giudicato i nazisti per i loro crimini ma abbiamo anche criminalizzato l'ideologia, abbiamo interdetto le manifestazioni, li abbiamo costretti a camminare col cappello in mano. È una catena, non si può colpire la mano senza colpire la testa».
Dove sono le menti della jihad nelle nostre società?
«Sono ovunque e non li fermiamo. Finché si lasciano gli imam predicare l'odio contro le donne e gli ebrei nelle moschee, finché si tollera chi sostiene che ascoltare musica è da maiali, finché si lascia fare chi non vuole stringere la mano alle donne, chi pratica il sessismo repressivo contro moglie, sorelle e omosessuali, finché ci sarà in giro gente che pensa che la propria religione è superiore ai diritti dell'uomo, ecco noi avremo sempre più terrorismo».
Come proteggere i nostri bambini?
«Il terrorismo è diventato un'angoscia per tutti, non solo per i giovani come me che ne sono stati direttamente toccati. Ed è un'angoscia soprattutto per i genitori dopo le stragi di Nizza e Manchester. È la prova che si tratta di una minaccia che riguarda ognuno di noi e che è necessario indirizzarsi in maniera collettiva contro questa ideologia, altrimenti mettiamo in pericolo chi parla, lasciandolo solo».
Per le sue posizioni la accusano di islamofobia.
«Quando si
critica il cristianesimo non scatta mai l'accusa di cristianofobia. L'islamofobia è un'accusa fallace per tappare la bocca a chi critica l'islam. Nei Paesi islamici usano le minacce, il carcere, i colpi di frusta e la morte».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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