Ma che America sarebbe stata quella guidata da un John McCain ipotetico vincitore della sfida perduta contro Obama nel 2008? Certamente un sogno a tinte rosee per chi ha mal sopportato gli otto anni di decadenza tinteggiata di politically correct del fotogenico Barack e vive con il disagio di un tradimento ideologico l'ascesa alla Casa Bianca dello pseudorepubblicano isolazionista Donald Trump.
Con John McCain, in primo luogo, non avremmo assistito al progressivo ritiro degli Stati Uniti dal loro ruolo di unica superpotenza mondiale. Se è vero, come scrisse Friedrich Nietzsche, che poche cose stancano come lo spettacolo di un continuo vincitore, è anche più vero che poche cose deprimono come vedere quel vincitore snaturarsi fino a somigliare alla negazione di se stesso: questo McCain non l'avrebbe mai consentito, agendo attraverso il convinto mantenimento di forti relazioni con i suoi alleati, quelle stesse che Obama ha messo in secondo piano per dedicarsi ai diritti delle minoranze in patria, e che Trump arriva a mettere in discussione inseguendo confusi nuovi equilibri.
Paesi canaglia come l'Iran o la Siria di Assad avrebbero effettivamente ricevuto, giusto o sbagliato che sia, il duro trattamento che temevano.
E se in America avremmo assistito al perpetuarsi di un conservatorismo alla Bush, McCain sarebbe anche stato capace di sorprenderci: l'uomo pensava con la sua testa e si batteva per il controllo delle armi, contro la tortura e per leggi più liberali in tema di immigrazione. Ci siamo persi un duro con un'anima.
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