
Capita di inciampare se si cammina guardando all'insù. Va così anche a Milano che negli ultimi lustri si è preoccupata più delle sue torri, dei suoi grattacieli, dei suoi uffici high tech, degli spazi commerciali sempre più ingombranti e fagocitanti, delle residenze di ultra lusso firmate dagli archistar, del suo skyline sempre più moderno e ambizioso che di ciò che stava al piano terra. Che si è preoccupata di diventare "smart", più moderna e più europea, di attirare non solo affari ma lavori nuovi, nuove manager digitali, nuova finanza. Una città che è diventata un'altra città, sicuramente bella, ambita, "attrattiva" come usa dire oggi. Una città ormai di fatto tra le grandi del mondo e che in Europa, dopo la Brexit, se la gioca con Londra e Parigi. Ma non c'è solo la Milano del "modello Milano". C'è anche una città che non cammina con il naso all'insù ma deve stare ben attenta a guardare dove mette i piedi per non cadere e farsi male. Che chiede case a buon prezzo, che ha bisogno di affitti alla portata di stipendi normali, che vive e sopravvive in quartieri che sono ormai diventati di frullati di razze e di mondi a se stanti, non comunicanti e spesso ostili, che non mette i cima alle sue priorità le battaglie ( sacrosante) per i diritti civili, per le piste ciclabili o per le piazze tattiche. C'è una città che non può permettersi di andare in ferie e allora rimane. Rimane in questi giorni di caldo africano con solo tre piscine aperte, "oasi nel deserto" come le definisce il giornale della Diocesi di Milano che punta il dito verso le privatizzazioni che mettono a rischio un servizio sociale. Ed è il termometro di un'amministrazione "distratta" che tutti in questi anni si è preoccupata più del destino del Meazza che della disastrosa situazione dei suoi impianti sportivi e che, a sei mesi dai Giochi olimpici, si presenta con un Palaghiaccio abbandonato (L'Agorà), senza una vasca olimpionica e con cinque piste di atletica (non omologate) contro le 42 di Londra e le 75 di Berlino, tanto per fare due esempi. C'è una città dove ormai molte periferie sono zone franche, dove ci sono bambini, come i quattro che nei giorni scorsi al volante di un'auto rubata hanno ucciso una donna di 72 anni, che sono "invisibili", che nessuno sa dove vivano, che non sanno cosa sia una scuola, sconosciuti ai servizi sociali. C'è una città che a forza di guardare in alto e di compiacersi per le sue terrazze, i suoi attici e i boschi verticali, si è completamente dimenticata (o ha fatto finta di dimenticarsi) che laggiù in basso, alle fondamenta, c'è un modo che arranca, che vive di preoccupazioni perché questa Milano non se la può più permettere. Che vive di ansie perché lontano dal centro o dai quartieri più nobili il "modello Milano" forse ha bisogno di un tagliando. Non siamo ancora alle banlieu parigine ma è solo una questione di tempo. La "città diffusa ad un quarto d'ora" è rimasta sui dépliant, non è per tutti e basta leggere le cronache. Da via Selvanesco a Chiesa Rossa, dal Corvetto, che dopo la morte di Ramy è una "polveriera", a Selinunte, a Quarto Oggiaro esiste una Milano dove non si vive bene.
Dove c'è timore, c'è malessere, c'è quell'ansia che un po' prende se capita ad esempio, ad ora tarda, di salire su un tram, una filovia, sulla metro. E questa è una città che, per evitare guai, tiene lo sguardo basso. Altro che guardare all'insù.