Cronache

Colombia, il mito anti narcos in arresto. E rischia quattro anni per corruzione

L'ex presidente Uribe è l'uomo che ha deciso la politica del Paese degli ultimi 20 anni: "Perdere la libertà mi riempie di tristezza"

Colombia, il mito anti narcos in arresto. E rischia quattro anni per corruzione

«La perdita della mia libertà mi provoca profonda tristezza per mia moglie, la mia famiglia e i colombiani che ancora credono che qualcosa di buono per la Colombia io l'abbia fatto». Da quando ha scritto questo post sul suo Twitter l'altroieri dando al mondo la notizia del suo arresto, Álvaro Uribe, l'ex presidente colombiano di destra (2002-2010) ha deciso di rimanere in silenzio. Di per sé la notizia non sarebbe gran cosa visto che di ex leader sudamericani finiti dietro le sbarre abbonda la storia (in Perù ci sono finiti tutti i presidenti dal 1985 ad oggi, tutti meno Alan García che ha preferito suicidarsi per non affrontare l'onta del carcere). Certo, ad Uribe la Corte Suprema colombiana (CSJ) ha concesso i domiciliari tuttavia, non trattandosi di un ex presidente qualsiasi, come da sinistra fu a suo tempo Lula in Brasile, la notizia della sua carcerazione ha fatto in poche ore il giro del mondo.

Il motivo dell'importanza del carcere per Uribe è semplice: da lui è infatti emanata tutta la politica colombiana che conta degli ultimi 20 anni, così come è stato lui in persona a scegliere gli ultimi due presidenti della Colombia. Prima il suo ex ministro della Difesa, Juan Manuel Santos, poi l'attuale presidente, Iván Duque. A concedere così tanto potere ad Uribe era soprattutto il grande appoggio popolare derivante sia dal boom economico durante i suoi mandati sia dall'essere riuscito a ridurre ai minimi termini la potenza di fuoco delle Farc con operazioni scolpite nella memoria dei suoi connazionali come la «Scacco Matto» che liberò Ingrid Betancourt e l'abbattimento in territorio ecuadoriano del ministro degli Esteri della narco guerriglia, Raúl Reyes.

L'inizio del declino di Uribe era iniziato, in realtà, già nel 2014, vero annus horribilis per lui. Quell'anno elettorale Uribe aveva scelto come suo delfino alla presidenza Iván Zuluaga perché Santos, da suo fedele ministro della Difesa si era trasformato nel suo nemico numero uno. Casus belli? Gli accordi di pace con le Farc dell'Avana, appoggiati dal futuro Nobel per la Pace ed osteggiati da Uribe. Zuluaga era davanti in tutti i sondaggi sino a quando Semana, rivista di proprietà della famiglia Santos, ad una settimana dal voto «affossa» con un video di un presunto spionaggio il candidato uribista. Che naturalmente perde le elezioni. Poco importa che le accuse di spionaggio contro Zuluaga siano state poi archiviate nel 2017 dalla Procura colombiana.

È sempre nel 2014, a settembre, che inizia invece l'odissea giuridica che ha portato ai domiciliari Uribe l'altroieri. Paradossalmente tutto nasce da una sua denuncia contro Iván Cepeda, un senatore formatosi nella Bulgaria comunista di inizio anni 80 e che si sarebbe incontrato in carcere sia in Colombia come negli Stati Uniti con ex paramilitari per indurli a testimoniare contro Uribe. L'ex presidente presenta prove alla Corte Suprema di Giustizia sui presunti incontri in carcere di Cepeda contro i suoi accusatori ma, nell'inchiesta, la Corte non solo archivia la denuncia contro il parlamentare acerrimo nemico di Uribe ma ordina un processo contro di lui perché la sua difesa avrebbe corrotto un testimone.

Sei anni dopo l'apertura di quel processo, finalmente, ora la Corte ha emesso la sua decisione, ovvero domiciliari per Uribe che, se condannato in via definitiva, rischia sino a 4 anni di carcere ma, soprattutto, a detta degli analisti «rischia la morte politica».

E se ieri Duque ha difeso in tv «l'amico Uribe, innocente sino a prova contraria», il dittatore venezuelano Maduro ha esultato a reti unificate definendolo «narcotrafficante, paramilitare e mafioso».

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