Moderato, populista, sovranista, progressista. Giuseppe Conte è pronto per la campagna elettorale e sferza il Pd dell'«agenda Draghi». L'avvocato di Volturara, dopo aver cambiato pelle passando dal gialloverde al giallorosso con venature cattoliche, insiste sul progressismo. D'altronde l'etichetta gli era stata affibbiata dall'ex segretario del Pd Nicola Zingaretti, che lo aveva definito «punto di riferimento fortissimo dei progressisti» all'epoca del secondo governo Conte. Con i dem ripiegati sul draghismo, il leader del M5s intravede uno spiraglio a sinistra e rilancia. «Il Pd è arrogante, i progressisti siamo noi», rivendica Conte in un colloquio con La Stampa. Pesa l'accusa di aver tradito l'Italia provocando la caduta del governo Draghi. Un attacco lanciato al M5s direttamente dal segretario Enrico Letta. L'accusa di tradimento «è un'infamia» risponde Conte. E se Letta aveva parlato dell'ex premier grillino come di un novello Gavrilo Princip che provoca la guerra mondiale da un colpo di pistola, Conte ribalta l'addebito. «Il primo colpo di questa crisi l'ha sparato chi ha inserito nel decreto sugli aiuti una norma sull'inceneritore di Roma sapendo perfettamente di mettere due dita negli occhi al Movimento e di attaccare le nostre battaglie decennali per l'ambiente», va all'attacco il presidente del M5s.
Conte scarica le responsabilità della crisi: «Durante tutto il periodo il M5s è stato la forza più leale all'interno di tutto il governo». Poi delimita il campo di gioco in vista delle prossime elezioni. «Tocca al Pd decidere che cosa fare. Ovvio che se i dem cercano una svolta moderata che possa accogliere anche l'agenda di Calenda noi non ci possiamo stare», detta condizioni il capo dei Cinque Stelle. Che poi raccoglie la mezza apertura arrivata dal leader di Articolo 1 Roberto Speranza: «Con loro c'è genuina consonanza di cose da fare». Gli esponenti di Art.1 però con tutta probabilità saranno candidati nelle liste del Pd e a Conte non resta che cercare spazio a sinistra della sinistra. A partire dai Verdi e poi Sinistra Italiana di Nicola Fratoianni, ma anche Rifondazione Comunista. E poi c'è l'ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris, che parla di «una coalizione alternativa, pacifista ed ecologista».
Nonostante le porte chiuse al Nazareno, nel M5s qualcuno ci spera. «Senza di noi regaleranno tutti i collegi uninominali al centrodestra», osserva un parlamentare stellato. A Via di Campo Marzio c'è chi studia l'ipotesi di accordi locali al Sud con i dem. Eppure Letta sembra irremovibile: «La rottura con il M5s è irreversibile». E insomma il leader garante dell'accordo tra i populisti gialloverdi, il moderato con la pochette in cerca di responsabili, ora fa a gara con il Pd a chi è più di sinistra. Oltre al rebus delle alleanze il giurista foggiano deve fare i conti con i non pochi problemi interni.
Lo stop di Beppe Grillo al terzo mandato ha mandato in tilt le prime file del partito. Dal fronte degli ex governisti credono che l'uscita di Grillo sia stata concordata con Conte, che già non riusciva a gestire i questuanti in fila per la candidatura. Ma lo stesso leader stellato potrebbe cercare di riacciuffare alcuni big che lo hanno sostenuto.
Si parla di quattro o cinque deroghe per gli ex ministri e per chi ha svolto alti incarichi istituzionali. Con questo trucco potrebbero correre Roberto Fico e Paola Taverna, rispettivamente presidente della Camera e Vicepresidente del Senato. E si salverebbero anche i ministri uscenti Fabiana Dadone e Federico D'Incà.
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