È la Corea del Nord il fronte caldo per Trump

È la Corea del Nord il fronte caldo per Trump

Aveva proprio ragione Obama quando, nel suo unico colloquio con Trump, lo avvertì che la sua prima grande crisi internazionale sarebbe stata provocata dalle ambizioni nucleari della Corea del Nord. Dopo avere annunciato a inizio anno l'imminente messa a punto di un missile intercontinentale e lanciato, il 6 marzo, altri quattro missili nel Mar del Giappone, il giovane dittatore Kim Jong-un ha lanciato ieri l'ennesima sfida agli Stati Uniti: proprio mentre il segretario di Stato Tillerson si trovava a Pechino per discutere con il presidente Xi eventuali contromisure, ha dichiarato che un nuovo motore per missili a lunga gittata era stato testato con successo. L'unica incognita riguarda ormai la capacità dei nordcoreani di «miniaturizzare» le bombe atomiche di cui già dispongono (da 20 a 30 secondo le ultime stime, con l'ultima sperimentata di una potenza doppia di quella di Hiroshima) abbastanza per montarle sui loro vettori. Pyongyang, in altre parole, sta per varcare la «linea rossa» che, secondo lo stesso Tillerson, potrebbe scatenare una non meglio precisata «azione preventiva» da parte degli Stati Uniti.

È da vent'anni che gli americani stanno cercando di fermare la corsa al nucleare della Corea del Nord, ma tutti i tentativi sono risultati vani. I negoziati a cinque, con la partecipazione di Russia, Giappone, Cina e Corea del Sud, che pure prevedevano per Pyongyang cospicui vantaggi economici, non sono approdati a nulla; le sanzioni comminate dall'Onu sono state aggirate da Kim, consentendogli di procurarsi, anche con la complicità della Cina, tutti i materiali di cui aveva bisogno; il ricorso alla guerra cibernetica per fare fallire i test missilistici ha funzionato per un po', ma già da almeno un anno è stato neutralizzato. Ora, se Trump fa sul serio, rimangono aperte solo due opzioni: la prima è di convincere Pechino ad applicare al 100% le sanzioni dell'Onu, non solo interrompendo come ha già fatto gli acquisti di carbone nordcoreano, ma anche sospendendo a Pyongyang le vitali forniture di petrolio, mettendo fine al contrabbando ed eventualmente espellendo i lavoratori nordcoreani che, con le loro rimesse, contribuiscono a tenere in piedi le finanze di Kim: il tema è stato al centro del vertice di ieri a Pechino, ma nessuno si fa molte illusioni sui risultati. La seconda, di colpire preventivamente missili e rampe di lancio, è stata finora scartata perché troppo difficile e rischiosa: difficile perché è impossibile neutralizzare in un colpo solo tutto l'arsenale di Kim, mobile o nascosto in grotte; rischiosa, perché provocherebbe subito la reazione del giovane dittatore, che anche senza ricorso alle atomiche potrebbe costare entro poche ore la vita a milioni di sudcoreani e giapponesi. La stessa Seul è infatti sotto il tiro dei cannoni di Kim e l'ampia disponibilità di armi chimiche e biologiche permetterebbe di colpire anche le isole nipponiche.

L'enigma riguarda le sue reali intenzioni. Al momento egli appare deciso a fare della Corea del Nord costi quel che costi - una invulnerabile potenza nucleare, capace di tenere a bada non solo l'arcinemica America, ma anche la «amica» Cina, con cui i rapporti si stanno deteriorando.

Per quanto pazzo sia, sembra improbabile che intenda scatenare lui una guerra nucleare, che porterebbe inevitabilmente alla distruzione del suo Paese, ma il regime è talmente imprevedibile che il mondo non può restare inerte. Trump ha twittato «Non succederà!», Tillerson lo ha ribadito, ma che cosa questo comporti non lo sappiamo.

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