
L'attuale crisi dell'industria automobilistica europea, di cui oggi si discute a Bruxelles, non è riconducibile al Dieselgate, che tuttavia evidenziò quelle debolezze che adesso presentano il conto.
I fatti. Nel settembre 2015 Volkswagen confessò di aver manomesso la centralina per diminuire la rilevazione dei livelli di ossido di azoto nei test di omologazione, perché l'Epa (Environmental Protection Agency) minacciava di non autorizzare la commercializzazione di modelli Volkswagen e Audi dal gennaio 2016. Tra i motori termici il diesel per auto è quello più efficiente e con le minori emissioni climalteranti (CO2). Per questo l'industria europea l'aveva sviluppato a un livello di eccellenza mai eguagliato né dagli asiatici né dagli americani, non solo come spunto e piacevolezza di guida, ma anche e soprattutto quasi azzerando le emissioni inquinanti. Rispetto ai diesel del secolo scorso, che si facevano notare per i fumi allo scarico, uno di oggi emette il 98% in meno di polveri sottili e il 94% in meno di ossidi di azoto. In sintesi, tutto il Dieselgate poggiava sul nulla.
L'industria automobilistica aveva attraversato altri scandali ben più gravi. Due esempi. Negli anni '70, la Ford Pinto divenne tristemente famosa a causa di un difetto di progettazione che, in caso di tamponamento da dietro, esponeva il serbatoio al rischio di incendio ed esplosione: ci furono morti. Nel 2004 fu la volta delle Toyota, il cui pedale dell'acceleratore non tornava su e l'auto proseguiva la marcia in velocità, causando incidenti mortali. Eppure, non si ricorda un tank-gate che abbia messo in discussione la dotazione di serbatoio di tutte le auto e nemmeno un pedal-gate per eliminare l'acceleratore dalle macchine. Furono archiviati come difetti di progettazione o di produzione, irrorate le pene e le sanzioni del caso e poi basta: girata pagina si andò avanti.
In questo caso, nonostante le centraline Volkswagen non avessero ucciso nessuno, i media trasformarono la notizia della manomissione in uno scandalo epocale. Innanzitutto, hanno puntato l'indice sul tipo di motore e non sulla frode in sé: era un centralina-gate e invece fu etichettato diesel-gate. Inoltre, l'alterazione era stata compiuta da Volkswagen, dunque sarebbe stato un Volkswagen-gate. Niente, fu diesel-gate. Questo, oltre a dare la cifra di molta stampa, anche internazionale, indica pure la presenza di un movente. Lasciar stare un bersaglio come Volkswagen, nascondendolo dietro un motore e spalmando di fatto la responsabilità sull'intera industria europea, significa che c'era un boccone più succulento. Non è chiaro chi fossero i mandanti finanziatori dei vari movimenti ambientalisti, ma è un fatto che si volle colpire la tecnologia diesel, dove gli europei vantavano una supremazia indiscussa, ed è un altro fatto che a beneficiarne erano coloro che quella tecnologia non possedevano. Di Volkswagen, che era il più grande costruttore europeo e il secondo a livello mondiale, dissero al pubblico che questo scandalo ne aveva distrutto la credibilità e la fiducia che i clienti riponevano nei suoi prodotti. Ma si trattava più di un'aspirazione che di un fatto. Quei giornalisti volevano descrivere un mondo che ritenevano corretto, fatto di clienti che avrebbero bandito quei marchi dalla shopping list automobilistica, che però non esisteva. Sì, a caldo ci fu un atteggiamento di sorpresa e di forte disappunto da parte dei clienti, ma la flessione delle vendite fu contenuta e passeggera. Negli anni successivi il valore dei marchi Volkswagen presso i clienti rimase ben elevato e solido, come anche le vendite. Interbrand, società specializzata nella misurazione dei marchi, valutava in 13,7 miliardi di dollari il brand Volkswagen nel 2014 e lo svalutò nei due anni successivi a 12,5 e poi a 11,4. Poi già nel 2018 risaliva a 12,2 per arrivare nel 2023 a un valore mai toccato prima nella sua storia: 15,1 miliardi. Il valore di Audi non venne neppure sfiorato dallo scandalo e continuò a crescere anno su anno, eguagliando Volkswagen nel 2018 e salendo nel 2023 a 16,4 miliardi.
Insomma, la verità è che sì, i manager Volkswagen avevano truccato una centralina, e che no, non si fa, però i prodotti erano comunque ottimi e dunque valeva la pena acquistarli. Tradotto in termini di sociologia dei consumi, suona più o meno così: quando compro una macchina voglio quella che reputo la migliore che posso avere con quei soldi. Poi posso anche criticare il suo costruttore per i suoi comportamenti, ma certo non al punto di privarmi del suo prodotto: non punisco me pensando di punire lui.
Venendo a oggi, l'industria automobilistica europea è al tappeto a causa di investimenti sulle auto elettriche che i clienti non comprano e di una Commissione che la multa se vende ciò che il mercato acquista. Il Dieselgate non c'entra, però in esso c'era già tutta la debolezza dei costruttori: inermi di fronte a una politica che invece di sostenerla l'ha messa in ginocchio; impreparati a reagire all'attacco del "partito anti-auto" che vede nelle macchine il simbolo di uno stile di vita consumistico e colpevole da cui scappare; poco avvezzi a capire i loro stessi clienti e distinguere tra il cittadino, che in piazza vuole salvare il mondo, e l'automobilista che vuole fare rifornimento in due minuti e dunque compra auto termiche; fuori strada nel ritenere che l'attacco fosse mirato al motore diesel e non all'industria europea: se non vorranno più auto a gasolio fu il pensiero scellerato compreranno quelle a benzina. Se si fossero ispirati alla parabola della "pecorella smarrita", avrebbero difeso quella tecnologia con tutte le forze, poiché quando anche una sola parte del tuo business è sotto attacco, devi reagire come se tutto fosse sotto attacco. Insomma, gente non abituata né preparata, che fabbrica auto e vorrebbe vendere biciclette. Gente che sa, perché lo sa, che le emissioni delle auto sono irrilevanti, lo zero virgola, e che nessuna transizione elettrica potrà mai incidere sul clima, eppure continua a solleticare i clienti con una mano mentre con l'altra chiude le fabbriche.
In economia ci sta che i deboli soccombano
per lasciare spazio a energie fresche, più vigorose e affamate. Peccato che questa non sia l'economia ma la "nostra" economia. Qui il conto delle fesserie sbandierate da Greta e seguite dalle anime belle lo paghiamo tutti.