«Spad». Era dal 2006 che nelle orecchie dei russi non risuonava la parola «recessione». Otto anni di vacche grasse avevano creato l'illusione del Russian Dream . Adesso il sogno è finito, spezzato dall'avvitamento delle quotazioni del petrolio. Basta poco, quando la metà del budget si basa sugli incassi da greggio. Come un ragioniere maldestro, qualcuno a Mosca ha sbagliato i conti, tarando il bilancio sulla previsione di un barile sopra i 100 dollari, mentre oggi ne vale meno di 70 dopo la decisione dell'Opec, la scorsa settimana, di lasciare invariati i livelli produttivi.
Così, ieri, il Cremlino si è dovuto arrendere all'evidenza: nel 2015 l'economia russa subirà una contrazione dello 0,8% (dal +1,2% previsto), e i redditi si ridurranno di quasi il 3%. Una situazione di emergenza aggravata dalle sanzioni inflitte in seguito alla crisi con l'Ucraina, dalla continua fuga di capitali contro cui si stanno prendendo solo ora contromisure (Rosbank ha limitato l'ammontare massimo delle transazioni a 1.000 dollari) e dal crollo del rublo (-40% da inizio anno). Non essendo i russi secondi neppure ai fiorentini del Rinascimento in fatto di complotti (veri e presunti), la procura generale ha aperto un'indagine sulla banca centrale, accusata da un deputato di aver affossato la moneta nazionale.
Anche se non lo dà a vedere, Vladimir Putin si sente accerchiato. E certo non dev'essergli sfuggita l'interpretazione secondo cui l'Arabia Saudita, su precise pressioni degli Stati Uniti, avrebbe fatto pesare tutto il proprio peso all'interno dell'Opec per non tagliare l'output. Con l'obiettivo di mettere Mosca in ginocchio. Per la verità, circola anche una tesi opposta. Riyad vuole far crollare i prezzi per annientare i produttori di shale oil (costo di produzione attorno ai 65 dollari), il «miracolo» energetico a stelle e strisce che consentirà quest'anno all'America di importare appena 6,5 milioni di barili al giorno, come 20 anni fa.
Al tempo stesso, non è chiaro nemmeno se Putin abbia deciso di spegnere la luce sul progetto South Stream come atto di ritorsione nei confronti dell'Europa, oppure perché i costi del gasdotto, che hanno superato i 23 miliardi di euro, siano semplicemente insostenibili. Di sicuro, la piega che hanno preso le cose in Russia non è indolore per l'Italia. Ne sa qualcosa Saipem, i cui titoli sono collassati ieri a Piazza Affari del 10,8%, con ben 500 i milioni di capitalizzazione bruciati. Nell'ambito del progetto South Stream, la società controllata dall'Eni (+0,70%) aveva infatti vinto la gara per posare i tubi sui fondali del Mar Nero. Un contratto da 2,4 miliardi, mica bruscolini. L'azienda ha reso noto di «non aver ricevuto alcuna comunicazione di formale interruzione del contratto dal cliente South Stream Transport Bv». Ma non è bastato a bloccare le vendite. È vero: il contratto offre uno scudo in caso di cancellazione dei lavori, ma gli eventuali indennizzi non coprirebbero interamente la perdita dell'ordine.
Oltre a Saipem, è però l'intera economia italiana a doversi preoccupare della crisi della Russia, con cui l'interscambio commerciale è di 27 miliardi e l'export ammonta a 11 miliardi. Già le sanzioni avevano impattato su settori come il lusso e l'alimentare: ora sono prevedibili ripercussioni anche sul turismo, visto che con meno soldi in tasca, i russi viaggeranno e spenderanno meno.
Inoltre, il calo del petrolio non fa bene a chi, come i Paesi dell'eurozona, ha un'inflazione troppo fredda. In assenza di misure forti da parte della Bce nella riunione di domani, già in gennaio tutta l'area potrebbe scivolare in deflazione. E l'Italia rischierebbe di perdere, anche nel 2015, l'appuntamento con la ripresa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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