D'Alema e Alfano vanno alla guerra L'ira dei «cacicchi» del tre per cento

Il primo attacca a testa bassa il leader dem: è contro la sinistra e un dilettante. Il secondo prova a bloccare la riforma: acrobazie

D'Alema e Alfano vanno alla guerra L'ira dei «cacicchi» del tre per cento

Roma Due mondi. Anzi, due modi di stare al mondo. Angelino Alfano e Massimo D'Alema. Li chiamano «cacicchi», espressione coniata dal secondo a metà degli anni Novanta, quando alcuni sindaci eletti direttamente dal popolo raggiunsero un livello di potere (e popolarità) tale da poter immaginare di farne partito. Ma poi decaduti, fino a ridursi come semplici Ghini di Tacco, taglieggiatori della politica e testardi signornò, alla stregua di capi tribù del Messico e del Perù (l'etimo è caribico, attraverso lo spagnolo cacique).

Potere personale e potere d'interdizione. Come quello di Angelino Alfano, il «gatto che se lo metti in una scatola senza via d'uscita inarca la schiena, tira fuori le unghie e ti balza agli occhi», secondo la felice metafora del suo primo consigliori, Fabrizio Cicchitto. Lunedì a mezzodì Alfano vedrà Renzi sulla legge elettorale, ma dentro Ap è scattato l'«allarme rosso»: un accordo Renzi-Berlusconi metterebbe fine all'epopea dell'uomo senza quid (qui il felice eufemismo è berlusconiano). La soglia di sbarramento del 5 per cento significa morte civile, e Angelino chiama «acrobazie» qualsiasi patto che prescinda dalla sua fedeltà (sudditanza?) a Renzi e alla maggioranza di governo, qualunque essa sia. «Se vogliono fare acrobazie, ci terremo le mani libere», annuncia. L'esistenza in vita della sua navicella di fortuna, sostiene, «è un'esigenza di democrazia, non un capriccio» perché il Paese ha bisogno «di veder rappresentati in Parlamento partiti che... prendono milioni di voti...». Magari anche no, ma per portarsi avanti con il lavoro Ap ha già presentato 41 emendamenti al Rosatellum proposto dal Pd. In cambio, offre la garanzia di «numeri che in Senato ci sono» (tutto sta a cercarli).

Diverso il piglio, e anche orizzonte e prospettiva di Massimo D'Alema, animatore della scissione antirenziana del Pd. A chi gli prospetta un destino similare a quello d'Alfano, agonizzare sul 3 per cento, D'Alema risponde non come gatto, ma come tigre del Bengala. «Meglio prendere il 3 per cento a favore di ciò che si ritiene giusto che il 20 a favore di ciò che si ritiene sbagliato. E comunque lo spazio a sinistra è molto più grande», dice in un'intervista al Corsera. Lucido e salace come sempre, considera «il modo dilettantesco di governare di Renzi» un danno enorme per il Paese e per fortuna ora c'è Gentiloni che sta tenendo il timone «meglio di Renzi, ma non ci voleva molto». Altri sapranno fare meglio, «non è difficile pensarlo». Manderebbe subito a casa la Boschi, in virtù di una commissione sulle banche che il Pd annuncia ma non fa, e del giovane Matteo pensa tutto il male possibile. «La sua ispirazione politica è contraria ai valori della sinistra e prima ancora agli interessi del Paese... Il suo modello è House of cards, e uno dei cardini della sua politologia è non dire la verità».

Vorrebbe imitare Berlusconi, dice, e col suo sistema elettorale «si tornerebbe all'età del trasformismo, al giolittismo senza Giolitti, ma con tanti piccoli De Petris». Il patto Renzusconi, come lo chiama, «tirerà la volata a Grillo, perché la gente è indignata dalle ingiustizie, non perché è impazzita».

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