Ha ammazzato sua mamma. Sara è un «mostro». Da prima pagina, da studiare, da classificare, da vivisezionare con raccapriccio. Ha i connotati della cattiva: i capelli colorati «strani», la magliette coi teschi, il volto pallido da zombie. Indecifrabile.
Si nasce mostri? O lo si diventa? Questa non è un'altra faccenda. Al contrario. È la trama. La storia l'abbiamo tutti liquidata con titoloni fac-simile: «Uccide la madre che le vieta pc e telefonino». A seguire il retorico, solito esercizio di sociologi, psichiatri, tuttologi, presunti esperti: «Colpa di Internet, dei social, del web che “droga” i nostri ragazzi».
Melito Porto di Salvo - comune più meridionale della Calabria e dell'Italia continentale - la cittadina dove questa diciassettenne assassina viveva, o meglio, sopravviveva nel dolore di un'anima lacerata e divorata dagli incubi peggiori, riapre gli occhi. Attonita, spaventata, angosciata come tutti noi. Qualcuno, tuttavia, dovrebbe esserlo più di tutti. Non sappiamo il nome, ma sopra la pelle veste una toga, quella da magistrato di un tribunale per Minori, precisamente a Reggio Calabria. Questa tragedia la si sarebbe potuta evitare. Se le nostre istituzioni funzionassero. Non si pretende sempre, basterebbe che un occhio volesse guardare senza troppo spesso sottovalutare. Il fascicolo di Sara, della sua tormentata esistenza, dei pericoli potenziali e reali, di ciò che oggi si racconta come «tragedia inevitabile», era lì. Sul tavolo di un qualche pm. Scordato seppur bollato con un sigillo in gergo definito «codice rosso». Ovvero «pericolo di vita». Nonostante ciò nessuno è intervenuto. Lo si sarebbe potuto, dovuto fare.
Era la notte del 25 maggio quando nella frazione Anna di Melito, Patrizia Crivellari di 45 anni, la mamma di Sara, infermiera e moglie di un rispettatissimo poliziotto della Polfer, venne uccisa con un colpo di pistola alla nuca. Stesa in camera da letto della villetta al numero 100 lungo la vecchia statale, a metà strada fra il ponte sulla fiumara Tabacco e la Sala Foti. Lì la famiglia viveva, accanto alla sorella di lei. A dare l'allarme fu proprio la diciassettenne. Papà era fuori, la pistola invece in casa. Accessibile. Anche al bandito «alto alto», aveva raccontato la ragazzina, entrato col buio e sparito nel nulla. La bugia dell'assassina, adesso raccontano tronfi gli investigatori. Che però tralasciano particolari non da poco.
I servizi sociali erano intervenuti prima dell'omicidio. Nell'istituto professionale dove la giovane studiava da ragioniera, in terza perché bocciata a giugno, una specialista arrivata per un incontro con le classi si era accorta dei problemi. La stessa Sara qualche giorno più tardi l'aveva contattata. Chiedendo aiuto. «Stava male, da quando era bimba», racconta adesso una fonte che deve rimanere anonima. «La ragazza aveva gravissimi problemi interfamigliari», puntualizza. «È lei la vittima, non l'artefice». La stessa squadra Mobile di Reggio, aveva aperto un fascicolo sul caso. Si stava indagando sul come e perché dei disturbi di questa adolescente un po' punk e un po' cosplay , la cui vita si apriva solo nel chiuso della sua cameretta. Come finestra sul mondo Facebook, gli amici del web, il fidanzato più virtuale che reale.
La storia di quest'omicidio probabilmente era già scritta.
Nelle carte spedite dalla polizia ai giudici, c'è una fetta importante di verità. Nell'istanza di una psicologa, che sembra avesse chiesto di ricoverare immediatamente la diciassettenne, di toglierla da casa, c'era l'allarme. Se il «mostro» si era formato forse c'è anche un colpevole.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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