Delitto Macchi, a Binda 303mila euro. Risarciti 3 anni di cella da innocente

I sospetti per una poesia, l'ingiusta detenzione e l'assoluzione

Delitto Macchi, a Binda 303mila euro. Risarciti 3 anni di cella da innocente

La quinta Corte d'Appello di Milano ha accolto l'istanza di riparazione per ingiusta detenzione e ha liquidato oltre 303 mila euro a Stefano Binda, il 53enne assolto nel gennaio 2021 in via definitiva dall'accusa di avere ucciso la studentessa Lidia Macchi. L'uomo è stato in carcere 3 anni e mezzo, tra il 2016 e il 2019, e lo scorso maggio, in aula, aveva chiesto un «indennizzo» di oltre 350mila euro.

Lidia Macchi era stata uccisa con 29 coltellate nel gennaio 1987 e il suo cadavere era stato ritrovato in un bosco a Cittiglio nel Varesotto due giorni dopo la sua scomparsa da casa. I genitori, non vedendola rincasare, si rivolsero ai quotidiani e ai carabinieri per diramare la foto della ragazza. Si sapeva che era andata a trovare un'amica ricoverata all'ospedale di Cittiglio per un incidente stradale. E si appurò che aveva avuto un rapporto sessuale prima di morire.

Ora il suo delitto è un cold case. In primo grado Binda, ex compagno di liceo della vittima, era stato condannato all'ergastolo e era stato prosciolto dalla Corte di Assise di appello di Milano. I giudici avevano fatto a pezzi le tesi dei pm e quella che secondo l'accusa era la prova regina.

Si trattava della poesia «In morte di un'amica», spedita il giorno stesso del funerale alla famiglia Macchi. Otto strofe con riferimenti religiosi e frasi sulla purificazione nei quali si parlava di «agnello sacrificale». La poesia era stata vista come una sorta di confessione, un modo per l'assassino di scaricarsi la coscienza. Era stata Patrizia Bianchi, una amica di Binda innamorata di lui, a evidenziare in quei versi una similarità con la grafia dell'uomo con quattro cartoline, che le aveva spedito molti anni prima.

Una successiva consulenza grafologica aveva confermato che a scriverla era stato proprio Stefano. Ma secondo la Corte d'Assise d'Appello non vi era alcuna certezza che fosse stato lui. Così l'inchiesta, avocata dalla Procura generale di Milano, aveva condannato Binda il 15 gennaio del 2016. Poi era stato scarcerato il 24 luglio 2019, in seguito all'assoluzione in secondo grado poi confermata dalla Cassazione. Oggi la quinta Corte d'Appello, come è stato comunicato con una nota, ha depositato l'ordinanza riconoscendo l'ingiusta detenzione e liquidando immediatamente 303.277,38 euro a titolo di indennizzo. «Ho appreso dalle agenzie della decisione - ha sottolineato l'avvocato Patrizia Esposito che con il collega Sergio Martelli ha difeso l'imputato - decisione, che devo ancora leggere, sembra essere articolata e si sviluppa in oltre 20 pagine. È stata integralmente riconosciuta la cifra che chiedevamo per l'ingiusta detenzione, al centesimo, fatta eccezione per il danno endofamigliare, che è stato rigettato. In questo caso la richiesta era si soli 50 mila euro».

Serafico invece l'uomo che per oltre tre anni e mezzo ha pagato ingiustamente con la sua libertà. «Lo Stato deve riconoscere di avere sbagliato - ha detto Binda -. Qui non è solo in discussione il risarcimento per i danni che ho subito, anche economici, ma l'ammissione dell'errore nei miei confronti».

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