Dietro le sbarre si prepara la jihad

In cella 6mila islamici e 345 estremisti. E apriamo agli imam che radicalizzano i detenuti

Dietro le sbarre si prepara la jihad

«I percorsi di radicalizzazione si sviluppano soprattutto nelle carceri e nel web». Il premier Paolo Gentiloni affrontando nella conferenza stampa di ieri il problema della radicalizzazione non solo scopre l'acqua calda, ma dimentica che a riscaldarla è stato soprattutto quel governo Renzi di cui ha fatto parte.

A quel governo spetta, infatti, la grave responsabilità di aver aperto le carceri italiane agli imam dell'Ucoii, i rappresentanti religiosi di quell' «Unione delle Comunità Islamiche Italiane» intimamente connessa alla Fratellanza Musulmana. Dal 5 novembre del 2015 - grazie ad un protocollo d'intesa firmato dal capo dell'amministrazione penitenziaria Santi Consolo - i predicatori con il tesserino dell'Ucoii hanno ottenuto il libero accesso alle prigioni di Torino, Milano, Brescia, Verona, Modena, Cremona e Firenze, gestiscono le sale utilizzate come luogo di culto dai detenuti musulmani di quegli otto istituti di pena e controllano i cosiddetti «momenti collettivi di preghiera». Per combattere il fenomeno della radicalizzazione islamista il governo Renzi non ha trovato di meglio, insomma, che affidarsi ai «sacerdoti» dell'Islam politico. Lo stesso «Islam politico» che ispira i terroristi di Hamas e sui cui testi si sono formati personaggi come Osama Bin Laden e il suo vice Ayman Al Zawahiri. L'inserimento di questi potenziali maestri del jihad in un sistema carcerario che conta oltre seimila detenuti di fede islamica - oltre il 12% su un totale di 54mila reclusi- e almeno 345 prigionieri «radicalizzati» rischia di avere effetti devastanti. Per capirlo non serve ricordare episodi come quelli del carcere di Novate a Piacenza dove lo scorso maggio alcuni detenuti si sono rivoltati inneggiando allo Stato Islamico o le grida di esultanza con cui a Rossano, il carcere speciale calabrese, sono state festeggiate le mattanze di Parigi e Bruxelles. Ben più preoccupante di quegli episodi è la quotidiana e costante operazione di radicalizzazione svolta da detenuti italiani o stranieri - di consolidata fede jihadista - nei confronti dei compagni di cella. O, peggio, la trasformazione delle «ore d'aria» in sedute d'indottrinamento da parte di presunti imam dediti al proselitismo. Episodi che rischiano di moltiplicarsi se ad introdurre nelle carceri i «cattivi maestri» contribuisce quella stessa autorità carceraria che dovrebbe, invece, contribuire a tenerli il più possibile lontani affidando l'opera di de-radicalizzazione a predicatori d' ispirazione moderata controllati e certificati da autorità governative.

Il rischio, perseverando in quest'errore, è di ripetere la deriva francese. Grazie ai mancati controlli sui predicatori fondamentalisti le carceri d'oltralpe sono diventate, già alla metà degli anni 90, il vivaio del jihadismo. Un vivaio dove i piccoli criminali delle «banlieu» si sono islamizzati alimentando l'attuale filiera di 1.400 detenuti radicalizzati tra cui si contano 400 esponenti e sostenitori del terrore jihadista.

Una filiera da cui sono usciti mostri come Mohamed Merah, protagonista nel 2012 di sette omicidi a Tolosa, Amedy Coulibaly il sostenitore dell'Isis ucciso a Parigi dopo essersi barricato in un supermercato kosher nei giorni della strage di Charlie Hebdo, Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l'ex spacciatore responsabile del massacro 84 persone sul lungomare di Nizza e Adel Kermiche, lo sgozzatore di padre Jacques Amel massacrato sul sagrato della chiesa di Saint-Étienne-du-Rouvra. Tutti precedenti che Gentiloni farebbe bene a ricordare affrettando la revisione di un protocollo d'intesa quanto meno azzardato.

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