Zero riforme, solo tasse. Il disastroso bilancio di un premier inadatto

Sulla Stabilità il Senato è stato umiliato da Renzi con la grave complicità di Napolitano e Grasso

Zero riforme, solo tasse. Il disastroso bilancio di un premier inadatto

diÈ proprio bravo Matteo Renzi... Sì, ma a darla ad intendere! A suo dire, se non fosse intervenuto lui in extremis, la legge di Stabilità sarebbe stata «un mostro con norme marchetta». E poco importa se, per consentire questo atto eroico, il Parlamento è stato del tutto esautorato del suo potere legislativo. Questo il messaggio spudorato che venerdì sera ha fatto trapelare attraverso le veline di Palazzo, mentre faceva il buon padre di famiglia dall'ineffabile Bruno Vespa. Ma chi le aveva introdotte le «marchette» nel maxiemendamento del governo? La sua maggioranza. E le aveva raccolte il suo governo. Cioè lui, Renzi. Dunque, il presidente del Consiglio, dopo aver prodotto porcherie, si trasforma in eroe, perché purifica il paese dalle mance elargite dal partito e dal governo di cui è capo. Geniale. Lo stesso trucco utilizzato con Mafia Capitale: lui, superman, si atteggia a scardinatore del malaffare, quando il marcio è intestato alla gestione amministrativa di sinistra e ha per protagonista le coop rosse guidate dal suo ministro Poletti. Spudorato al quadrato.

La legge di Stabilità

A riprova che il nostro è veramente un genio, analizziamo che cosa è successo davvero questo fine settimana sulla legge di Stabilità. Con il consenso sdraiato di Sua Imminenza il presidente Giorgio Napolitano, il Parlamento è stato trattato come l'asciugamani del pediluvio del premier. Al Senato si votava il provvedimento di politica economica più importante dell'anno. Il governo ha chiuso la pratica senza che la Commissione bilancio votasse sugli emendamenti (anche i propri!), trasferendo tutto all'Aula. Ma lì non ha trasferito un bel nulla. Non c'era pronto niente.

Il governo di arroganti dilettanti allo sbaraglio ha cercato allora di dare una verniciata di nobiltà alla sua spudoratezza. Prima tirando fuori la storia che bisognava accompagnare il tutto da una relazione tecnica, e che la cosa era complicata e lunga. Poi, accortisi che questa spiegazione era la confessione della propria inadeguatezza, si è trasmutato magicamente il ritardo in un'altra delle fatiche d'Ercole di Matteo, l'uomo che cancella privilegi e mance.

In questo contesto, il Senato è stato trattato come residenza indebita di una banda di scolaretti viziati in perenne gita. Legato mani e piedi a mero esecutore delle volontà del premier.

Bisogna risalire a circa 90 anni fa per vedere il Senato trattato come una combriccola di studentelli in «ricreazione». Testuali parole della seconda carica dello Stato, a breve facente le veci, sia pur per poco, del presidente della Repubblica. Il presidente Pietro Grasso, infatti, dopo che i senatori sono stati a lungo presi in giro dai continui rinvii del viceministro Enrico Morando, quando con comodo il governo ha portato il testo, ha trattare l'Aula come un manipolo di sfaccendati. Il Parlamento, che dovrebbe essere (ma non è più) il luogo della massima espressione della democrazia, è così stato trasformato nella palestra per le esibizioni di Mastrolindo Renzi. Con l'incredibile benedizione dello scempio da parte di Napolitano, a sua volta gratificato di encomi sperticati dal beneficiato, che lo ha eletto «Uomo dell'anno». E ci mancherebbe.

Nel compiere lo scempio democratico, infatti, Renzi non ha avuto solo la complicità ineffabile di Grasso, ma anche la complicità convinta, coordinata e continuativa di Napolitano. In effetti, si sentiva la mancanza di un'altra spintarella di Napolitano a favore del suo protetto. Le dimissioni saranno pure imminenti, ma l'avvilente sostegno di una carica super partes a una sola parte è costante, tragicamente evidente, e da nessuno messo sotto accusa per la totale incostituzionalità. Altri tempi quando Napolitano faceva il cerbero sugli atti del governo Berlusconi. Se li ricorda, presidente?

Il semestre italiano alla Ue

In questo contesto non possiamo non fare un bilancio anche sul semestre italiano di presidenza dell'Unione europea. Tanto più che pare che Napolitano abbia aspettato la fine di questi sei mesi per le sue dimissioni. Compito arduo aspettare la fine del nulla. Sacrificio mal riposto.

Un bilancio scadentissimo. Il premier non ha inciso in niente, non è stato capace di far squadra con Mario Draghi. L'Italia è più sola, e si trova esattamente al punto di partenza. Conti pubblici fuori controllo, crollo del Pil, aumento del disagio sociale, debito pubblico alle stelle.

Se proprio qualche risultato concreto vogliamo trovarlo (con il lanternino), ecco l'elenco: limitazione del segreto bancario; clausola antiabusi contro la doppia imposizione; norme più severe sull'antiriciclaggio; divieto degli Ogm; eliminazione delle buste monouso; apertura della discussione sulla riduzione dell'Iva ridotta sugli e-book.

Si commenta da solo. Per non parlare dello stop imposto all'etichetta del «made in» sull'import dai paesi terzi, l'unico risultato buono della Commissione di Manuel Barroso.

Matteo Renzi voleva «cambiare verso» all'Europa. Non è riuscito a cambiarlo all'Italia, figuriamoci al di là delle Alpi. Occorreva una visione realistica dei rapporti di forza nell'Eurozona e una strategia in grado di far leva su contraddizioni di carattere oggettivo. Il presidente del Consiglio italiano non è stato all'altezza di questi compiti. La congiuntura istituzionale (la fase di passaggio di potere tra il vecchio e il nuovo Parlamento e tra la vecchia e la nuova Commissione) non lo ha sicuramente aiutato, ma anche questo doveva essere messo nel conto. Il premier aveva un grande alleato, il presidente della Bce, ma non è riuscito a fare sponda con lui. Mario Draghi insiste da tempo su una strategia che non postula strappi impossibili, ma fa continuamente emergere l'inadeguatezza dell'ortodossia, sia essa finanziaria o politica, rispetto alle reali condizioni dell'Eurozona. Ci voleva qualcuno che traducesse quegli stessi concetti nel linguaggio della politica. Al contrario, Renzi ha voluto seguire una retta autonoma e parallela, disperdendo, in tal modo, la forza di un potenziale impatto congiunto.

In altri momenti della storia nazionale vi sono stati premier che erano anche segretari di partito. Di partiti, tuttavia, che erano ancora capaci di incidere sulle linee politiche: di fornire al proprio leader un supporto politico-culturale.

Dietro Renzi, invece, c'è ben poca cosa. Una cultura politica, quella del Pd, che non ha fatto ancora pienamente i conti con le sconfitte della storia. E che quindi si è consegnato, mani e piedi, al verbo apparentemente salvifico dell'ultimo arrivato. Ma se quest'operazione ha avuto successo in Italia, all'estero la nudità del re è apparsa evidente. E gli altri ne hanno approfittato. Esisteva un'alternativa? Forse sì: mettere da subito in cantiere riforme che effettivamente rimettessero in moto l'economia. E su questo terreno andare al confronto, anche duro, con la componente degli irriducibili, anche all'interno del suo stesso partito. Fino alla possibile rottura. Se questo fosse avvenuto non ci sarebbe stato neanche lo spauracchio del 3% a fermarlo. I mercati, ancor prima della Commissione europea, avrebbero compreso che finalmente l'Italia usciva dalla stagnazione. Così invece non è stato, sei mesi sono passati invano, e la credibilità del nostro paese è ai minimi.

Un bilancio disastroso, dicevamo. E questa miseria di incompetenza e di disprezzo per il Parlamento e per la democrazia dovrebbe essere il governo costituente e del risanamento morale ed economico? Come si fa a crederci? Impossibile. Su Stabilità e semestre europeo il premier ha fallito miseramente. Ha dimostrato la sua inadeguatezza a guidare l'Italia.

E sul resto, sulle riforme, elettorale e istituzionale, che lui vuole incardinare violentemente, non si sa per quale alchimia di ricatti blandizie e rassicurazioni, rischia di andare anche peggio. Che Dio ce la mandi buona.

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