Draghi e l'incognita del silenzio

Immersi nel rimbombante frastuono delle dichiarazioni dei politici, nel ritmo vertiginoso dei tweet e nelle asfissianti dirette Facebook, avevamo dimenticato - quasi con inevitabile naturalezza - cosa volesse dire il riserbo, il tacere, lo stare fermi

Draghi e l'incognita del silenzio

Non eravamo più abituati al silenzio. Immersi nel rimbombante frastuono delle dichiarazioni dei politici, nel ritmo vertiginoso dei tweet e nelle asfissianti dirette Facebook, avevamo dimenticato - quasi con inevitabile naturalezza - cosa volesse dire il riserbo, il tacere, lo stare fermi. Dall'oggi al domani, ci siamo ritrovati orfani di un premier onnipresente, praticamente ubiquo, almeno dal punto di vista mediatico. Al suo posto una presenza ingombrante più di fama che di presenza. Dal giorno dell'insediamento sono passati solamente tre giorni, eppure ci sentiamo spiazzati, confusi, persino abbandonati. In una parola, ci sentiamo soli. Così soli da imbatterci in una domanda assurda quanto reale: "Ma Draghi è davvero il nuovo presidente del Consiglio?".
Eravamo così avvezzi agli appuntamenti fissi che ci sembra di aver perso la bussola. Eravamo così fossilizzati alle conferenze stampa e ai dpcm che si susseguivano l'un l'altro che ora sembra regnare l'anarchia.

Eppure un premier c'è, anche se non si vede, anche se non parla. Eppure il contorno è sempre lo stesso, condito dalla caciara parlamentare, dai politici che già gli tirano la giacchetta, da quelli che si intestano battaglie da condurre con lui, da quelli che già lo criticano non si sa per cosa e da quelli che già lo difendono per non si sa per cosa. Ma è come se si fosse reciso un filo diretto immaginario che si era creato tra Conte e il cittadino. Una linea senza filtri, intrisa di odio o di empatia, ma pur sempre una linea. Adesso è come se quel filo si fosse volatilizzato. D'improvviso. Chi provava odio si sente rincuorato mentre chi nutriva empatia patisce la mancanza, ma in entrambi i casi permane una strana incognita dell'ignoto.

Draghi non appare in tv, non parla (al massimo fa sapere di aver parlato o di aver condiviso una scelta come è stato per la decisione di non riaprire gli impianti sciistici) non cinguetta, non pubblica post, non si rivolge agli italiani. Nel pieno rispetto dell'istituzionalità del suo ruolo, domani terrà il suo discorso programmatico nell'aula di Palazzo Madama, discorso che verrà bissato giovedì a Montecitorio. Ma si sa poco di quello che dirà. Parlerà ai partiti per ottenere una fiducia già annunciata. E poi, una volta ottenuta, inizierà a lavorare. Nel silenzio. Il che non è aprioristicamente un vulnus, a patto però che siano garantite due condizioni: che al silenzio corrispondano fatti concreti e tangibili e che il silenzio non venga circondato dal fragore di indiscrezioni, anticipazioni errate e attacchi pretestuosi. Il venir meno anche solo di uno di questi presupposti rischierebbe di rendere ancora più tenebrosa l'immagine di Draghi e l'autorevolezza che il mondo ci invidia. In un attimo, si tramuterebbe nella peggiore esasperazione di un concetto etereo ma mai tanto reale: il tecnocrate messo lì dai poteri forti per imporre ulteriori restrizioni alla nostra sovranità sociale e personale.

E sarebbe un errore madornale che non possiamo permetterci. Perché, al netto di ogni ideologia o retropensiero, un premier che profonde tempo e sudore per il bene comune, per la salvezza di una nazione in un contesto di pandemia come quello che stiamo vivendo, seppur da una posizione meno esposta mediaticamente non significa pavlovianamente che stia tramando dietro le quinte.

Ma può significare semplicemente che sta lavorando nel silenzio. Il punto vero è che noi non eravamo più abituati al silenzio. E, come dopo un'esplosione ravvicinata, deve passare del tempo prima che l'udito torni alla normalità.

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