Non si è piegato. Anche a costo di perdere la poltrona. Perché questo rischia il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, dopo la decisione di ieri con cui la banca centrale Usa ha lasciato invariati i tassi al 2,25-2,50%. Respinte quindi le ruvide pressioni di Donald Trump, con un atto di lesa maestà ancora più bruciante alla luce dell'annunciata intenzione della Bce di Mario Draghi di dare presto una sforbiciata al costo del denaro e di rimettere in moto la stampante monetaria del quantitative easing. L'apertura verso una politica monetaria più lasca ha già mandato il tycoon, martedì scorso, su tutte le furie. Fino al punto di accusare Super Mario di essere il burattinaio che tira i fili dell'euro, orchestrandone la svalutazione. Adesso le cose si fanno più complicate. L'istituto centrale Usa rivendica autonomia dal potere politico, ma l'atto di resistenza può costare molto caro al successore di Janet Yellen. Già lo scorso dicembre, The Donald aveva accarezzato l'idea di licenziare il suo ex pupillo. Allora, il team di avvocati della Casa Bianca lo aveva fatto desistere dall'intento. Ma a febbraio di quest'anno il tycoon è tornato alla carica: stessa la richiesta, identica la risposta dei legali. Trovare appigli per mettere alla porta Powell è tutt'altro che semplice. Mai un presidente della Fed è stato costretto a far le valigie. Trump, però, non sembra voler mollare: a chi gli chiedeva ieri se intende ancora licenziare Powell, così ha risposto: «Bene, vediamo cosa fa», riferendosi alla riunione della Fed. La risposta di Powell: «La legge è chiara: ho un mandato di quattro anni e intendo portarlo a termine». I rapporti sono ormai talmente deteriorati da rendere una ricucitura quasi impossibile. Anche se Eccles Building ha rimosso dal comunicato diffuso alla fine della riunione l'aggettivo «paziente» che negli ultimi mesi aveva accompagnato il suo approccio sui tassi, il problema è che il board è spaccato in due: otto componenti sono favorevoli a uno (o due) tagli quest'anno, otto sono per mantenere lo status quo. Solo uno ha votato per un calo immediato.
D'altra parte, la mossa di Draghi ha messo Trump alle strette proprio nel momento in cui parte il carrozzone della sua campagna elettorale. Per strappare un secondo mandato alla Casa Bianca, The Donald ha bisogno di un terreno sgombro da trappole. Ma è difficile centrare l'obiettivo di una crescita del 3% se la Fed ti rema conto. E a dar retta all'ex numero uno della bBanca centrale Usa, Stanley Fisher, è ciò che è accaduto in dicembre. «Se Trump avesse parlato meno, Powell non avrebbe probabilmente alzato i tassi». È possibile che il temporeggiare della Fed sia legato anche al G20 della prossima settimana ad Osaka, e più precisamente all'esito dell'incontro fra Trump e il presidente cinese Xi Jinping. La guerra dei dazi è tra le principali fonti di preoccupazione della Fed («Gli sviluppi commerciali sono importanti per le nostre decisioni», ha detto Powell), costretta ieri ad ammettere «l'incertezza» sulla crescita dell'economia a stelle e strisce, pur confermando un +2,1% per il Pil nel 2019.
Rispetto a Powell, il compito di Draghi è più facile. L'allontanarsi dagli obiettivi di inflazione e la frenata della crescita economica sono argomenti sufficienti per giustificare un allentamento delle maglie monetarie. Anche se pare che il Super Mario abbia finito per spiazzare parte del board. Finora, taglio dei tassi e riavvio del Qe erano state solo ipotesi prospettate nella riunione a Vilnius da alcuni governatori. Eppure, quello che potrebbe essere il lascito di Draghi prima del suo congedo difficilmente troverà ostacoli.
Perfino il tedesco Jens Weidmann, mai tenero con l'ex governatore di Bankitalia, ha fatto ieri pubblica ammenda riconoscendo la legittimità dell'Omt, lo scudo anti-spread. Un mea culpa forse indotto dall'impulso di accreditarsi come prossimo presidente dell'Eurotower e meno falco. O forse perché la Germania ha talmente il fiato corto da avere un disperato bisogno dell'ossigeno della Bce.
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