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E il decreto antiterrorismo dov'è finito?

Il governo Renzi l'ha rinviato tre volte. L'ultima scusa: serve la firma di un presidente. Ora c'è, ma nulla è cambiato

E il decreto antiterrorismo dov'è finito?

Ormai è già passato un mese. Un mese apertosi con il massacro dei redattori di Charlie Hebdo e proseguito con il terrore seminato dai loro assassini prima a Parigi e poi nel resto dell'Europa. Un mese segnato, come se non bastasse, anche dagli attacchi dello Stato islamico nel cuore di Tripoli ad appena 400 chilometri da noi. Un mese conclusosi con le terribili immagini del pilota giordano Mu'adh Al-Kasasibah chiuso in una gabbia e bruciato vivo. Immagini capaci di scuotere il mondo intero, ma non il nostro governo. A ben guardare, per il premier Matteo Renzi, per il ministro dell'Interno Angelino Alfano e per quello della Giustizia Andrea Orlando è come se non fosse successo nulla. Il fantasma del decreto antiterrorismo è lì a dimostrarlo. Invocato davanti ai cadaveri ancora caldi delle vittime di Parigi, esibito come un totem di risolutezza e determinazione il decreto s'è immediatamente trasformato in un imbarazzante terreno di scontro tra la magistratura, le diverse anime dell'esecutivo e le più svariate componenti del Partito democratico. Oggi, quattro settimane e tre rinvii dopo, è soltanto una scolorita vestigia, schiacciata dal grigiore della nuova era mattarelliana. Un dettaglio insignificante rispetto allo scontro tra un Alfano ormai all'angolo e un premier tanto spregiudicato quanto inconcludente.

Per spiegare i tre successivi rinvii di quel decreto, mettere una pezza sulle divisioni della politica e nascondere gli altolà della magistratura il governo s'è già arrampicato su tutti gli specchi disponibili. Mentre il francese Manuel Valls impiegava meno di due settimane per scovare i 425 milioni da destinare alla lotta al terrore islamista Matteo Renzi non trovava di meglio che nascondersi dietro la necessità di accorpare le nuove misure al decreto sulle missioni all'estero. Era solo il primo di tre successivi dietro front. Mentre le scuse si moltiplicavano e le settimane passavano il 28 gennaio arrivava la giustificazione finale, quella sancita dall'obbligo di sottoporre il decreto alla firma di un presidente in carica anziché a quella di uno supplente come il presidente del Senato Aldo Grasso.

Ora anche quell'ultima foglia di fico è caduta ed il re è nudo. Eppure nulla cambia. Prigioniero di una superficialità e di un'apatia abnormi se paragonate alla gravità delle minacce che ci circondano il nostro Consiglio dei ministri continua a non trovare il tempo e la voglia di votare il decreto antiterrorismo. Mentre lo Stato islamico ci sbatte in faccia l'orrore di un essere umano bruciato vivo Palazzo Chigi preferisce ancora una volta non dare risposte. Mentre le bandiere nere del Califfato sventolano sulle coste di una Libia distante solo 400 chilometri Matteo Renzi e i suoi ministri si preparano a rinviare nuovamente i provvedimenti indispensabili per conferire maggiori poteri all'intelligence, garantire il coordinamento delle indagini sull'antiterrorismo e riportare in strada i 1.250 militari frettolosamente tagliati a dicembre.

Misure che nessun governo degno di questo nome dovrebbe permettersi di prorogare sine die perché da quelle misure dipendono la salvaguardia dei confini, la sicurezza delle istituzioni e le vite di noi cittadini.

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