Le armi di Recep Tayyp Erdogan sono sempre le stesse. Da una parte minaccia di far tracimare sulla rotta balcanica centinaia di migliaia di migranti reiterando il ricatto del 2016 con cui ha già estorto sei miliardi di euro all'Unione Europea.
Dall'altra s'aggrappa a quell'articolo 5 del trattato Nato che impone ai paesi membri di schierarsi al fianco di un alleato minacciato o sotto attacco. Ma sono armi che l'arroganza e i voltafaccia del Sultano rendono spuntate ed obsolete. Per questo la partita di Idlib, la provincia siriana dove l'esercito turco appoggia i ribelli jihadisti e le formazioni di Tahrir Al Sham, la costola siriana di Al Qaida, rischia di rivelarsi il suo ultimo azzardo.
La drammatica svolta è arrivata giovedì sera quando i raid aerei siriani (ma forse anche russi) sono costati la vita a 33 soldati turchi coinvolti nell'offensiva che ha restituito ai ribelli il controllo del nodo strategico di Saraqib e di parte dell'autostrada tra Aleppo e Damasco. Per tutta risposta il presidente turco ha annunciato la fine dei controlli sui migranti diretti verso Grecia e Bulgaria e richiesto l'appoggio della Nato contro Siria e Russia. Stavolta, però, il presidente turco rischia grosso. La sfida che lo contrappone ad un Vladimir Putin deciso a regalare all'alleato Bashar Assad la liberazione dell'ultima provincia ancora in mani ribelli non ha molte possibilità di andare in porto. E non tanto per la forza militare e la determinazione di Mosca quanto per le ambiguità inanellate nell'ultimo quinquennio. Cinque anni in cui il Sultano ha ripetutamente sfidato Europa e Stati Uniti trasformando la Turchia da caposaldo a ventre molle della Nato.
Le connivenze con lo Stato Islamico, lo smacco degli S400 - il sistema di difesa antiaerea russo preferito ai missili Patriot americani e l'attacco ai curdi del nord est della Siria nonostante i «niet» statunitensi, sono precedenti su cui Washington non può sorvolare. Precedenti che rendono assai poco attraente agli occhi americani il velato impegno di Erdogan a rompere con Mosca per tornare alle vecchie alleanze. Non a caso il Consiglio Atlantico, riunitosi ieri su richiesta di Ankara, si è limitato a garantire la propria solidarietà alla Turchia e ad esprimere una formale condanna di Siria e Russia guardandosi bene al proporre forme di sostegno concrete. Anche perché l'esercito turco non sta difendendo il proprio territorio, ma combattendo su quello siriano.
Dall'altra parte anche l'Europa ha ottime ragioni per non cedere ai ricatti. Al milione di sfollati in fuga da Idlib potrebbero aggiungersi molti dei 12mila militanti di Al Qaida e dei quasi 50mila jihadisti impegnati nei combattimenti. Permettere a Erdogan di aprire le frontiere significa far i conti con migliaia di potenziali terroristi diretti verso l'Ue. Ma significa soprattutto cedere una volta di più alle provocazioni di un Sultano pronto ad estendere la sua politica di intimidazioni e ricatti alla Libia e al Mediterraneo orientale. Arruolando, invece di disarmare, i ribelli islamisti di Idlib Erdogan ha potuto metter in piedi le milizie mandate a combattere al fianco di Tripoli contro il generale Haftar.
E in cambio di quelle milizie e di altri aiuti militari ha estorto al premier libico Al Serraj la firma del trattato marittimo che gli consente ora di rivendicare il controllo delle risorse del Mediterraneo Orientale. Una sfida aperta a Cipro e Grecia, ma anche ad un'Italia che vede ridimensionata la sua influenza in Libia e rischia di perdere cruciali risorse energetiche.
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