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Famiglia veronese distrutta in Perù: inghiottita dal Rio delle Amazzoni

Alla fine, l'unico che si tira fuori dalla claque è il fratello di una vittima. Dei trentadue morti della Costa Concordia, Russel Reben, cameriere indiano, è toccato diventare più famoso degli altri, perché i suoi resti vennero ritrovati solo quando il relitto approdò al porto di Genova. Ieri al responsabile di quella gigantesca tragedia, il comandante Francesco Schettino i pubblici ministeri - per usare le parole del loro capo - «hanno presentato il conto delle sue malefatte»: ventisei anni di carcere per naufragio colposo e omicidio colposo plurimo. La richiesta viene accolta con soddisfazione tato dai parenti delle vittime quanto dal popolo del web. Ma al fratello di Russel Reben la pena esemplare non interessa. A Schettino manderà un messaggio: «Dio ti benedica e benedica anche la tua famiglia». E spiega ai giornalisti: «Ci sono tante persone che fanno molto più male di lui e che sono fuori, lui non ha ucciso 32 persone; è stato un suo errore, ha fatto l'incidente, ma le persone non sono morte nell'impatto ma dopo tre e quattro ore. É responsabile ma non ha ucciso mio fratello».

Per il resto, non una voce - a eccezione ovviamente di quella dei suoi avvocati - si leva a difendere Schettino, e nemmeno a sollevare dubbi sulla dimensione della pena invocata per lui dalla Procura. Sul comandante pesano le immagini raggelanti della catastrofe, i nastri delle intercettazioni, quel «cazzo torni a bordo» che gli resterà incollato per tutta la vita; e insieme ad essi l'eterna aria arrogante, le autodifese inverosimili, l'assenza di qualunque tormento visibile per le sue colpe. Del disprezzo nazionale per Schettino si fa portavoce la requisitoria dei pubblici ministeri: «incauto idiota», lo bollano i pm: «Dio abbia pietà per il comandante Schettino perché noi non ne possiamo avere alcuna». Al tribunale la Procura chiede che in caso di condanna Schettino venga immediatamente arrestato per impedire che scappi.

É l'ultimo dei tre giorni di requisitoria nel processo per il disastro del Giglio, che vede sul banco il comandante come unico imputato. Se altre colpe minori vi furono, restano fuori dall'aula, già chiuse dai patteggiamenti. Il dito della Procura è tutto contro di lui, l'ufficiale dai capelli troppo lunghi e lo sguardo troppo altero: «Improvvisare la rotta e con quelle condizioni determina l'aggravante di una mostruosa colpa cosciente», resa ancora più grave dai «futili motivi» del gesto, «l'aver voluto fare un favore a un capo cameriere che gli aveva chiesto di passare vicino all'isola dove vivono la madre e la sorella», «fare una bravata per gli amici passando a pelo di scoglio al Giglio». «Nel dibattimento non è emerso alcun elemento a favore dell'imputato che si è messo da solo nelle sue condizioni disperate», anche perché sono emersi i «motivi personali che lo hanno indotto a ritardare l'emergenza generale per cercare di salvare la sua personale posizione», fino alla «ingiustificabile e ignominiosa».

Così, tra giudizi che vanno dalla morale, alla psicologia, al diritto, la Procura punta ad affossare Schettino sotto una condanna che - come dice il suo avvocato Donato Laino, «equivale a un ergastolo». A calcolare in ventisei anni di carcere la giusta pena per il comandante la Procura spiega di essere arrivata partendo dal reato più grave, l'omicidio colposo plurimo, 14 anni, aggiungendovi i sei anni del naufragio colposo, e i tre anni per l'abbandono dei passeggeri. É una somma algebrica, che farebbe della pena di Schettino un record assoluto nelle condanne per reati non volontari. Ma è anche vero che del tutto eccezionale, nel dolore che ha seminato e nell'impressione che ha prodotto, è stato il disastro della Costa Concordia.

Lui, Schettino, in aula a sentire la richiesta dei pm contro di lui non c'era. «Sono a disposizione dell'autorità giudiziaria, mi si dica quello che devo fare», fa sapere. E promette che non scapperà. Almeno stavolta.

Un vortice d'acqua, così insidioso da inghiottire una famiglia intera. Sono morti così Marco Magnani, 39 anni, imprenditore veronese, la moglie Akintui Ruiz Cristina Vanette, 25 anni, di origine peruviana e il loro figlio Gabriel, di soli cinque. La loro vite sono state strappate dalla furia del fiume Maranon, uno degli affluenti del Rio delle Amazzoni, nel nord del Perù. Nell'imbarcazione insieme a loro viaggiavano altre undici persone, che risultano ancora disperse.

La famiglia veronese era in vacanza, per visitare i luoghi d'origine della donna. La notizia dell'incidente è arrivata ieri ai carabinieri di Lazise (Verona) da un famigliare di Marco, imprenditore molto conosciuto nel comune del lago di Garda, dove gestiva un albergo, mentre sua moglie da nove mesi lavorava come barista all'hotel Villa Letizia di Bardolino, sempre sul Garda.

«Pochi giorni fa - racconta il sindaco di Lazise Luca Sebastiano - il padre di Cristina era venuto a trovarli a Lazise ed era stato ospite della famiglia Magnani e del marito della figlia che pensava tanto al lavoro, ma che amava anche divertirsi». Proprio per questo aveva deciso di riaccompagnare il suocero in Perù, anche per far conoscere i parenti al piccolo Gabriel. Invece il destino ha voluto diversamente. Ieri avevano deciso, insieme agli altri passeggeri della barca, di visitare una comunità indigena.

Otiniel Danducho, sindaco della località di Imaza, che si trova a circa 20 chilometri dal luogo del naufragio, e era nel piccolo natante con i suoi assessori, ha detto che è affondata dopo essere finita, di ritorno da Chiriaco, in un vortice, forse causato dalle piogge cadute incessantemente nei giorni scorsi. «Siamo partiti 9 persone in una barca e altri 10 imbarcati indietro - racconta -. Siamo stati tra le comunità indigene di Yapikusa e San Ramon. Poi la barca è finita in un vortice, il motore si è spento e la corrente ci ha trascinato via, ribaltando le imbarcazioni». Vigili, esercito, personale della Protezione Civile si sono subito messi al lavoro per cercare i sopravvissuti. Qualcuno, infatti, ha avuto la freddezza di aggrapparsi ai bidoni vuoti di plastica, che si trovavano a bordo in caso di emergenza, salvandosi. Marco, invece, ha cercato di afferrare il figlio e la moglie.

Ma corrente e destino sono stati più forti e li hanno divisi per sempre.

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