Il fattore Di Maio sul Colle: sessanta voti in libera uscita

Lo stop di Tajani: "Troppo presto per discutere". Salvini su Draghi: "Se si sposta cambia tutto"

Il fattore Di Maio sul Colle: sessanta voti in libera uscita

Grandi manovre in corso sul Quirinale, tatticismi, messaggi subliminali, colloqui segreti, finte, trattative incrociate. La giornata registra tre fatti che riguardano tre attori importanti del thriller in scena fino a febbraio. Il primo tassello porta al M5s, un partito che è ormai una giungla, con un leader - Conte - sempre più in difficoltà a tenere a bada le diverse anime e farsi riconoscere come il vero capo (ha provato a rimediare nominando una nuova segreteria politica, con tutti i vice di sua fiducia, ma non è cambiato niente). Il problema principale per l'ex premier è che non controlla i gruppi parlamentari, soprattutto alla Camera, dettaglio per nulla indifferente nel risiko numerico sul Quirinale. Il vero dominus grillino in Parlamento è ancora Luigi Di Maio. L'ex capo del M5s, avendo fatto in poco tempo una gavetta di superlusso (tre volte ministro, vicepremier) ha imparato alla perfezione i segreti del linguaggio politico, dire una cosa per farne intendere una diversa. In un'intervista al Corriere mette infatti in guardia sul ruolo dei «franchi tiratori», che possono diventare decisivi nel voto sul capo dello Stato. Il messaggio va però letto in controluce. Di Maio non si riferisce ai parlamentari del Misto, o ai peones in libera uscita. Il pacchetto di voti che possono cambiare gli equilibri della conta sono quelli che controlla lui, nel Movimento Cinque Stelle. I bene informati stimano in almeno cinquanta, ma più realisticamente una sessantina, i parlamentari che al momento opportuno seguiranno le indicazioni del ministro degli Esteri, un governista che punta a far restare Draghi a Palazzo Chigi (e quindi se stesso alla Farnesina) e allontanare lo spettro del voto al 2023. Per questo Di Maio è aperto al dialogo sull'ipotesi Berlusconi, anzi fa capire - nemmeno troppo tra le righe - che semmai il problema a trovare una quadra sul Cavaliere può arrivare dagli alleati di Forza Italia («Salvini e Meloni si affrettano sia a candidarlo sia a dire che i voti non ci sono. Il punto è che Berlusconi potrebbe essere affossato dallo stesso centrodestra»). Questo al netto dei grillini che, senza una indicazione dall'alto, sarebbero già comunque orientati ad appoggiare l'ipotesi Cavaliere. «Berlusconi può contare sull'appoggio di almeno 7 grillini alla Camera» confida all'Adnkronos l'ex M5s Gregorio De Falco.

Secondo tassello, la Lega. Salvini sembra aver cambiato strategia rispetto a qualche settimana fa quando puntava a Draghi per il Quirinale (in antitesi al Pd che invece lo vuole a Chigi) come condizione per poi andare a votare nel 2022. Uno scenario che è sempre stato quello opzionato dal suo vice, Giancarlo Giorgetti. Ma che è cambiato nelle ultime ore. Il segretario si è infatti convinto (forse anche alla luce dei sondaggi non più stratosferici per la Lega) che la cosa migliore sia che Draghi resti dove è, allontanando così l'ipotesi delle urne anticipate. Salvini dà ragione all'Economist; «È giusto che continui, se sposti una pedina è difficile che poi resti tutto com'è. E poi cosa facciamo, abbiamo prolungato lo stato d'emergenza fino al 31 marzo e lui se ne va a gennaio? Draghi teme un anno di campagna elettorale? Anche io faccio lo sforzo di stare con il Pd» dice il segretario della Lega, che continua l'opera diplomatica sentendo i vari leader, con l'idea di arrivare ad un «tavolo sul Quirinale con i segretari tra Natale e Capodanno». Una fretta che però non condivide Forza Italia. Per il numero due azzurro, Antonio Tajani, «è molto presto per impegnarsi in un confronto sul Quirinale. Dall'inizio dell'anno concretamente se ne parlerà». Anche l'autointestazione della regia sugli accordi quirinalizi fatta da Salvini non ha convinto più di tanto, mentre anche Salvini vuole avere un quadro più chiaro dagli alleati («Bisogna vedere pure quello che Berlusconi vuole fare»). Intanto un primo punto fermo, trasversale, sembra raggiunto, quello su Draghi.

«Che rimanga a Palazzo Chigi è un fatto che riguarda l'interesse nazionale - conferma Tajani -. Ormai tutti dicono la stessa cosa: lo dico io, lo dice Salvini, ma anche Letta, Conte, Washington e Bruxelles. È una voce unanime di buon senso condivisa dalla maggioranza degli italiani».

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