Feltri, quando il dolore rivela l'anima

Il giornalista lascia cadere la maschera parlando della morte della prima moglie

di Tony Damascelli

C i sono momenti, quasi attimi che durano il tempo di un respiro, durante i quali anche chi non ha lacrime, chi sembra non avere nemmeno un cuore, chi viene pensato come un duro, si scioglie alla memoria di un affetto perduto, strappato via in modo feroce. È capitato a Vittorio Feltri, intervistato in tivù da Massimo Gramellini. L'album dei ricordi passava dalla nascita delle due gemelle Saba e Laura, un momento felice, inaspettato per il numero doppio della prole, vissuto con tremori e svenimenti dinanzi all'evento comunque storico per un ventiduenne, con un lavoro precario e una vita da decidere. Maria Luisa, la moglie, sarebbe morta alcuni mesi dopo. E il volto di Feltri, fino a quel punto aperto, ridanciano, provocatore, come usi e costumi, addirittura con accento romanesco, quel viso ha smarrito la luce spavalda, l'espressione si è fatta seria, il leggero tic agli occhiali, il sopracciglio sinistro arcuato, e, improvvisamente, il tono della voce niente affatto strafottente, le parole lente, faticose, distanti una vita dal cinismo verace e consueto. Gramellini lo ha sfiorato appena rileggendo le note di quei giorni: «...per anni hai fatto un sogno ricorrente in cui la vedevi dallo specchietto retrovisore della tua Cinquecento vestita come era l'ultima volta che tu l'hai vista sul letto di morte». Feltri ha corretto: «No, peggio, peggio, sognavo di essere in macchina e la macchina andava e io non riuscivo a fermarla, guardavo nello specchietto retrovisore e la vedevo che mi inseguiva ma non riuscivo a fermarmi», queste ultime quattro parole sono uscite difficili, commosse, l'inseguimento di Maria Luisa prosegue da cinquant'anni e più, l'auto di Vittorio Feltri non è più la stessa ma lo specchietto riflette ancora quell'immagine, una fetta di vita che non si può cancellare, la madre di due figlie, la speranza di chi si arrangiava trasformata, di colpo, in una atroce sofferenza, una violenza. Il dolore del ricordo può essere silenzioso, tenuto da parte per tutta una esistenza ma davanti a una telecamera diventa impossibile nascondersi dietro la maschera, la stessa che Feltri indossa quando ha voglia, e ne ha anche troppa, di aggredire, verbalmente e culturalmente, il dirimpettaio. Chi conosce soltanto il Feltri radiofonico e televisivo o di qualche editoriale maligno e sprezzante, può essere stupito, se non incredulo, dinanzi alla commozione che si è manifestata in televisione.

Non è stata una recita, quel dolore non si può esibire teatralmente, semmai con la dignità e il rispetto nei confronti di chi non c'è più ma è alle tue spalle e ti insegue cercando di riacciuffare quelle pagine di vita.

È il sentimento che sembra smarrito o addirittura perduto nell'aria avvelenata di una vita che è altra. Il ricordo è una virtù, è un privilegio, quand'anche questo comporti il dolore che è parte vera della nostra esistenza. Un semplice fotogramma può aiutare a scoprire la vera anima di un uomo.

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