Quella frase di Davigo che lo inchioda da 25 anni

Dei politici disse: "Solo colpevoli non ancora scoperti". Ora si smarca, ma ha consegnato l'Italia ai giustizialisti

Quella frase di Davigo  che lo inchioda da 25 anni

Ci sono persone che diventano proverbi. Piercamillo Davigo, uno dei più celebri magistrati tricolori, potrebbe essere raccontato attraverso due massime che hanno fatto il giro del mondo: «Rivolteremo l'Italia come un calzino» e l'altra, altrettanto dirompente, «non esistono politici innocenti ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove». O, per dirla con modi spicci, non ci sono innocenti ma colpevoli non ancora scoperti.

Queste due «filastrocche», scandite ai tempi gloriosi di Mani pulite quando Davigo militava nel Pool, sono diventate negli anni inni semiufficiali del giustizialismo all'italiana. Veri e propri mantra ripetuti a occhi chiusi, quasi in trance, da generazioni di girotondini, grillini, manettari. Del resto, dopo un quarto di secolo in prima linea, Davigo è sempre lo stesso. Intransigente, quasi apocalittico, durissimo nei confronti del potere che pure ha molto da farsi perdonare e spesso ha fatto di tutto per dargli ragione.

Passi per lo stivale formato calzino. Stupisce invece che ora l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati cerchi di smarcarsi dall'altro concetto, diventato evidentemente troppo ingombrante. Non può negare di averlo pensato e compresso come un sandwich dentro uno slogan, e ci mancherebbe, ma prova a circoscriverlo, a collocarlo in un angolo della cronaca dove non appaia per quello che è: eccessivo, fuori misura, buono per quella cultura del sospetto che ha avvelenato i pozzi per una lunga stagione. Dunque Davigo non può smentire ma prende le distanze da se stesso in una chilometrica intervista apparsa ieri sul Fatto quotidiano a firma del direttore Marco Travaglio. Travaglio ricorda all'ex pm che quelle parole sono state contestate persino da uno dei leader dell'Anm, Antonio Sangermano, in un colloquio con Luca Fazzo sul Giornale. Davigo ne approfitta per spargere un po' di sale, alla sua maniera: «Sì, è la stessa» frase «che mi attribuisce anche Renzi nel suo ultimo libro: sorprendente questa assonanza, non trova? I due hanno le stesse fonti o leggono la stessa pessima stampa». Così, dopo aver messo insieme e maltrattato a freddo il Giornale e l'ex premier, il giudice arriva finalmente al punto: «In realtà io parlavo di un processo specifico: quello di Mani pulite sulla linea 3 della metropolitana milanese, dove si dimostrò fino in Cassazione che tutte le imprese consorziate versavano la loro quota di tangenti all'impresa capofila, che poi versava l'intera mazzetta al cassiere unico della politica, che poi la distribuiva pro quota a ogni rappresentante dei partiti di maggioranza e di opposizione». È quello il fondale da cui partì il viaggio di quella fortunatissima affermazione. «È colpa mia - tira le fila il giudice - se poi tutti sono stati condannati?»

Siamo alle solite. Davigo s'improvvisa filologo di se stesso, s'immerge nel proprio passato, come aveva fatto pure a Porta a Porta piazzando la solita didascalia sul «contesto specifico» sotto quel frammento di storia della magistratura tricolore, salvo poi ricordare con una punta di compiacimento che erano tutti colpevoli, dal primo all'ultimo. Davigo ha più di un merito: ha condotto brillantemente indagini difficilissime e oggi guida senza peli sulla lingua, come è nel suo stile, la battaglia contro il male dei mali della corporazione in toga: la lottizzazione degli incarichi. Ma è anche il campione di quella mentalità manichea che ha trasformato l'Italia in una riserva di caccia per magistrati e investigatori.

Con errori gravissimi, ricadute devastanti sulla nostra economia, l'indebolimento complessivo di quel potere politico che lui continua a combattere. E la scoperta infine del contrario esatto di quel che lui va predicando da sempre: esistono colpevoli che invece erano innocenti per davvero. Ma hanno avuto vita e carriera rovinate per sempre.

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