N el microcosmo Pd si attende con il fiato sospeso la giornata di giovedì, quando si terrà la Direzione che dovrà nominare la nuova segreteria «unitaria» del partito, attesa da febbraio.
Una scadenza che non interessa praticamente nessun altro al mondo (probabilmente neppure al premier, che ha altro da fare: ieri lunga riunione con Cottarelli, Padoan, il consigliere economico Gutgeld, la Boschi e lo staff economico di Palazzo Chigi su tagli e legge di Stabilità; oggi un pranzo in Vaticano con segretario di Stato, presidente della Cei e alte gerarchie varie, domani Renzi incontrerà tutti i ministri per discutere di spending review), ma che agita molto le acque interne. Soprattutto dopo che due «grandi vecchi» come Massimo D'Alema e Pier Luigi Bersani hanno riaperto le ostilità, frenando le trattative della minoranza con Renzi. Ma il silenzio che è seguito alle esternazioni polemiche dei due fa capire chiaramente che nelle «nuove leve» Pd, bersaniane o dalemiane o comunque anti-renziane che fossero in origine, nessuno o quasi ha intenzione di seguire i padri nobili sull'Aventino: «Vogliono tutti stare con Renzi, ormai», dice un dirigente filo-premier, «non per amore, magari, ma perché quel 40% delle Europee ha chiarito a tutti che la sua è l'unica leadership possibile, per gli anni a venire, e conviene stare con lui». Lo hanno capito anche Bersani e D'Alema, che tuttavia provano a convincere i loro a mettere almeno qualche condizione al premier pigliatutto. Così il fido bersaniano Alfredo D'Attorre si fa portavoce dell'ex segretario nel chiedere che la segreteria abbia «una funzione politica» e non sia «un semplice allargamento dello staff di Renzi». Insomma, le posizioni della minoranza devono «trovare ascolto» nel governo, e condizionarne le mosse. Sulla stessa linea anche Stefano Fassina, che avverte: «Se non risolviamo le differenze di fondo non credo sia possibile parlare di segreteria unitaria». E D'Attorre si spinge fino a chiedere una sorta di «conferenza programmatica» del Pd, nella quale si «ragioni sul ruolo e l'autonomia del partito nel momento in cui il suo segretario è anche presidente del Consiglio». È il vecchio sogno bersanian-dalemiano di recuperare un controllo sulla «Ditta» e di mettere le briglie al premier. Facile capire quanto la proposta possa essere gradita a Palazzo Chigi: Renzi non ci pensa per nulla, ovviamente. E purtroppo per Bersani, D'Alema e compagnia, non ci pensano neppure i giovani leoni delle loro correnti, pronti ad entrare nella maggioranza renziana. Con la sola eccezione dei civatiani. Ma Renzi difficilmente si strapperà i capelli per l'assenza di Pippo: peraltro ha già infilato in segreteria, come responsabile economico, il civatiano Filippo Taddei, che probabilmente verrà confermato.
Da sostituire ci sono Maria Elena Boschi, Marianna Madia, Lorenzo Lotti e Federica Mogherini, tutti al governo, e poi Pina Picierno emigrata al Parlamento europeo. C'è la solita grana delle «quote rosa»: il premier ci tiene a confermare il suo record di nomine femminili (ragion per cui il nome più gettonato dai bersaniani, ad esempio, è quello di Micaela Campana, molto vicina all'ex segretario), ma non è facilissimo. Per il posto della Mogherini in segreteria, ad esempio, sarebbe in pole position per competenza Enzo Amendola, giovane dalemiano e brillante capogruppo Pd in commissione Esteri. Ma la Mogherini andrà presto sostituita anche al governo, quando la sua nomina Ue diverrà ufficiale.
Renzi ha già detto che non vuol fare rimpasti di sorta, e la soluzione di cui più si vocifera (sempre in ossequio alle quote rosa) è quella più «indolore» della promozione di Roberta Pinotti (assai apprezzata dal premier) agli Esteri, e del debutto di Marina Sereni, vicepresidente della Camera, alla Difesa.
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