È il giorno di Starbucks. Parte l'assalto Usa all'espresso all'italiana

Apre domani a Milano il primo locale del brand di Seattle. L'abbiamo visitato per voi

È il giorno di Starbucks. Parte l'assalto Usa all'espresso all'italiana

La sirena sta per cantare. E stavolta difficilmente ci sarà qualcuno che si tapperà le orecchie con la cera, come Ulisse e i suoi compagni nell'Odissea. Al massimo qualche purista del «vero» caffè all'italiana si tapperà il naso. Sapete che c'è? Peggio per lui.

Starbucks stavolta apre davvero in Italia. Domani alle 9 di mattina in punto, a piazza Cordusio, nel cuore di Milano, nel vecchio palazzo delle poste rimesso a nuovo ma ancora coperto da teloni per non spoilerare gli effettacci di quello che è uno degli eventi meneghini di questa fine estate. Anche ai giornalisti - ieri invitati a visitare in anteprima lo spazio - sono state sigillate le fotocamere dei cellulari per evitare che scattassero e diffondessero su siti e social immagini del locale.

Locale che, va detto, è bellissimo. Dimenticate l'atmosfera da fast food all'Arabica che contrassegna solitamente i negozi della mulinazionale di Seattle. Questa è una «Reserve Roastery», vale a dire una torrefazione a vista dove il caffè è trattato come roba seria. È una «fabbrica di caffè» dove pensi da un momento all'altro di veder spuntare Willy Wonka con la tuba, il farfallino e una tazza fumante in mano. Un grande loft post-post-industriale tutto legno e ottone, con tocchi art nouveau e la luce naturale che sgocciola dall'alto, concepito come un luna park del chicco. Al centro ruba la scena una vanitosissima tostatrice Scolari che sbuffa, scalda e sforna chicchi di sola Arabica di alta qualità provenienti dalle coltivazioni etiche snocciolate in una trentina di Paesi differenti. La macchina trasforma la tostatura in uno spettacolo, in un'esperienza, in un gioco. Il caffè si potrà bere all'italiana, con un espresso destinato a tappare la bocca a quelli che il caffè vero è solo tricolore; oppure con metodi di torrefazione ed estrazione che moltiplicheranno le esperienze di degustazione: il Chemex, il Siphon, il Colver, il ModBra, il Coffee Press. Ci sono anche un bancone con le focacce e i dolci di Princi, un angolo destinato al gelato artigianale da affogare nel caffè, uno «scooping bar» in cui acquistare confezioni di caffè appena tostato da portare a casa, un american bar su un soppalco (si chiama Arriviamo, buffa scelta) dove i baristi propongono cocktail talvolta ispirati al caffè (ma chi vorrà un Negroni non ha nulla da temere).

Questo sbarco così faraonico a Milano del colosso del caffè - che ha locali in 78 paesi tra cui Brunei e Cipro - in realtà ha numerosi significati. Starbucks entra dopo vent'anni di esitazioni nel mercato che pensa di insegnare a fare il caffè al mondo (in realtà non è più così ma a noi piace ancora crederlo) con la precisa volontà di fingere di fare un tributo alla tazzulella ma in realtà con la segreta speranza di sparigliare le carte. «Non abbiamo nulla da insegnarvi ma solo da imparare», continua a ripetere Howard Schulz, chairman di Starbucks, che non fa che ricordare come fu una visita a Milano nel 1983 a farlo innamorare dell'italian way of life del caffè e poi aggiunge di aver trascorso il resto della sua vita a cercare di replicare questa suggestione. Starbucks sarebbe in fin dei conti come un praticante di judo che si è allenato maniacalmente per tanti anni e ora va a sfidare i judoka del Sol Levante fingendo di accontentarsi di non sfigurare ma in realtà convinto di stravincere.

Nei prossimi giorni capiremo se questo tempio della contemporaneità che interpreta una commodity come fosse un capo di haute couture appiccicato addosso a una modella mozzafiato sarà un luogo che cambierà il centro di Milano o solo l'ennesimo locale alla moda pronto a essere rimpiazzato tra sei mesi da un

altro più alla moda ancora. A noi la tazzina piace vederla mezza piena anziché mezza vuota e votiamo per la prima che abbiamo scritto. Ci vediamo da Starbucks (che poi è a due passi dalla redazione. Grazie mister Schultz).

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