Magistratura

Il grande inquisitore cade sulla soffiata che fu l'arma letale di Tangentopoli

L'intero processo all'ex magistrato ruota attorno alla divulgazione di rivelazioni coperte. E ora questa condanna potrebbe voler dire che il vento è cambiato

Il grande inquisitore cade sulla soffiata che fu l'arma letale di Tangentopoli

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Allo stesso modo in cui i medici sono i peggiori pazienti, i magistrati sono i peggiori imputati. Lo hanno dovuto sperimentare sulla loro pelle gli avvocati e i giudici del tribunale di Brescia chiamati a processare Piercamillo Davigo, il celebre Dottor Sottile del pool Mani Pulite finito sotto accusa per la brutta storia dei verbali del caso Eni volantinati qua e là per Roma. Non sempre capace di dimenticare il suo vecchio ruolo e di calarsi nella veste di accusato, Davigo ha dato filo da torcere più ai suoi legali che ai suoi inquirenti, intervenendo nel processo a ogni piè sospinto per proclamarsi innocente, non sempre in modo efficace: sperimentando così sulla sua pelle che accusare è più facile che difendersi.

Ma se il processo terminato ieri è risultato a suo modo affascinante non è solo per lo spettacolo paradossale del grande inquisitore divenuto inquisito. C'era sul tavolo dei giudici, a dominare l'intera vicenda, un tema cruciale che riguarda insieme alla persona fisica di Davigo una parte importante della storia giudiziaria d'Italia, da Tangentopoli in poi. Perché l'intero processo all'ex pm ruota intorno alla faccenda del segreto istruttorio, alla separazione rigida tra ciò che viene appreso dagli inquirenti nel corso delle indagini e ciò che può venire divulgato, sbattuto in pagina, divenire oggetto di pubblico dibattito, campagne elettorali, talk show.

Di questo, in fondo, era accusato Davigo: non tanto di avere ricevuto dal povero pm Paolo Storari i verbali sulla cosiddetta (reale o immaginaria, chissà) loggia Ungheria: ma di averli poi divulgati a mezza Roma, facendoli per interposta persona arrivare fino al Quirinale - e qui passi - ma anche offrendoli in conoscenza a un boiardo del Movimento 5 Stelle, ultima trincea degli ultras pro-procure, e facendo in questo modo dei segreti in essi contenuti merce di scambio nell'agone politico. Quello che avviene da trent'anni, insomma.

Proprio questo aspetto consuetudinario è forse l'attenuante maggiore che il tribunale, se fosse stato più benevolo, avrebbe potuto concedere all'imputato Davigo. In Italia non si è mai visto un magistrato condannato per avere spifferato notizie, non esiste una inchiesta per violazione del segreto istruttorio che sia arrivata a scoprire un colpevole in toga, perché mai avrebbe dovuto essere lui il primo? Vagli a spiegare che quando vai in pensione la solidarietà di casta si attenua.

Davigo è cresciuto in un'epoca in cui il segreto istruttorio era una pinzillacchera, un cavillo ad uso dei reprobi per evitare che le loro malefatte divenissero di pubblico dominio. Di questo approccio, con uno dei suoi soliti fulminanti aforismi, Davigo si sbarazzava così: «Se ti dico che sei un ladro non puoi rispondermi che è un segreto!». Le platee dei fans applaudivano e ridevano.

È quasi di formale eleganza che la condanna di Davigo arrivi a pochi giorni di distanza dall'intervista con cui - all'indomani della morte di Silvio Berlusconi - l'ex direttore del Corriere della sera Paolo Mieli ha alzato il velo sul padre di tutti gli scoop, l'avviso di garanzia al Cavaliere finito in mano al quotidiano milanese prima che al presidente del Consiglio. «Ci arrivò da Palazzo di giustizia», ha detto Mieli. Nel suo libro «La guerra dei trent'anni», Filippo Facci ha indicato proprio nello staff di Davigo il punto iniziale della fuga di notizie.

Ma forse, come nel caso Amara, è stata tutta colpa della segretaria. O no?

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