In attesa delle primarie, Matteo Renzi torna sui falsi conclamati dell'inchiesta Consip, contro suo padre e «soprattutto contro il presidente del Consiglio pro tempore», cioè lui. «Una vicenda molto grave - dice - su cui sarà doveroso fare totale e piena chiarezza: chiediamo la verità». E avverte: «Questa storia non finirà nel dimenticatoio».
Intanto attende con impazienza, per tornare pienamente in pista, le primarie del 30 aprile. Il mandato ai suoi colonnelli è stato molto chiaro: «Voglio una squadra compatta su cui poter contare, perché nei prossimi mesi ci giocheremo molto». Per non essere costretto a logoranti mediazioni con i capicorrente e condizionato dalle fronde interne, l'ex premier deve innanzitutto assicurarsi una maggioranza blindata negli organismi dirigenti: l'Assemblea nazionale, eletta con liste bloccate abbinate ai candidati, e la Direzione (nominata, su proposta del segretario, dall'Assemblea medesima). Sono le sedi da cui passeranno le decisioni sulla linea del Pd (ad esempio sulla legge elettorale) e sulle candidature alle prossime elezioni: per questo non sono consentiti errori. E gli strateghi renziani, in primis Luca Lotti e Lorenzo Guerini, si sono per tempo messi al lavoro per portare a casa il risultato, imbrigliando le correnti interne (innanzitutto la più temuta per abilità manovriera, quella di Dario Franceschini) per rendere autosufficiente il futuro segretario.
Il risultato, assicurano nel Pd, è stato raggiunto con ragionevole certezza: con una percentuale attorno al 60% per Renzi, i membri dell'Assemblea eletti dalla sua mozione saranno tra i 630 e i 640 sui mille totali. Suddivisi così: 420/430 renziani, 85/95 franceschiniani, 60/62 per Maurizio Martina e 55 per Matteo Orfini. Ai membri eletti andranno poi aggiunti quelli di diritto: 100 parlamentari, 20 segretari regionali (quasi tutti renziani), ministri eccetera. Il resto verrà diviso tra i candidati sconfitti, presumibilmente Andrea Orlando e Michele Emiliano. «Sarà difficilissimo mettere in minoranza Matteo - tira le somme un alto dirigente democrat - e soprattutto potremo scegliere di volta in volta, se costretti, la componente più congeniale con cui dialogare. Anche se ovviamente l'obiettivo è tenere tutti insieme».
Quei numeri blindati torneranno utili molto presto, appena si aprirà il dossier legge elettorale. Cosa che Matteo Renzi ha intenzione di fare subito dopo l'8 maggio, quando l'Assemblea nazionale proclamerà i risultati delle primarie e insedierà la Direzione. Il Pd si dividerà sulle modifiche da apportare all'ex Italicum della Camera e al Consultellum del Senato, e il pericolo da sventare, per Renzi, è che si crei un asse interno tra i fautori del ritorno all'Unione di prodiana memoria, e quindi del premio di maggioranza alla coalizione, sostenuto sia da Franceschini che dagli oppositori di Renzi, come Andrea Orlando. Che ieri ha mandato segnali in questo senso: «Con la sua ossessione di tornare a Palazzo Chigi, Renzi rischia di essere un ostacolo alla ricomposizione del centrosinistra», tuona. Il ragionamento del Guardasigilli a favore del premio di coalizione è chiaro: «Il tema delle alleanze è la vera questione per il Pd: vogliamo andare da soli verso la sconfitta, o ricostruire un fronte di forze diverse per contrastare il populismo ed evitare la prospettiva di un rapporto con Berlusconi?».
Un asse Franceschini-Orlando sul premio di coalizione scavalcherebbe il segretario nel dialogo con Berlusconi.
E inficerebbe la strategia renziana, che invece prevede di usare il bastone e la carota col Cavaliere, minacciando l'abolizione dei capilista bloccati per ottenere, oltre al mantenimento del premio alla lista, anche la modifica delle soglie di entrata in Parlamento, portandole al 5% in entrambe le Camere. Ecco perché a Renzi quei numeri blindati servono come il pane.
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