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Un Paese da guarire

Nel primo discorso da presidente, Biden ha parlato di un'America malata. Società, economia, politica estera: ecco l'eredità lasciata da Trump dopo 4 anni

Un Paese da guarire

«È tempo di guarire l'America». Così parlò Joe Biden nella prima notte da futuro presidente. Ma tra il dire e il fare c'è di mezzo un immenso mare. Un mare in cui bisogna capire cosa va veramente guarito, e cosa può effettivamente sanare un presidente a cui mancherà (stando agli attuali risultati) l'appoggio del Senato e, visti i 77 anni di età, anche l'ipotetico arco temporale del doppio mandato . La prima grande ferita è sicuramente quella di un'America divisa e polarizzata. Ma ricucire un paese in cui la cancrena di globalizzazione e neo liberismo scava solchi profondi fin dall'era Clinton richiede ben più del tempo concesso a Biden. E ben più delle politiche di compromesso per cui va famoso.

L'altra America, tenacemente fedele al cattivo Donald è figlia di oltre 25 anni di disordine sociale. Anni in cui è scomparsa la classe media, indispensabile serbatoio di qualsiasi politica centrista e bi-partisan. Anni in cui sono cresciute le disuguaglianze socio- economiche esacerbando lo scontro tra le grandi metropoli icone del progressismo neoliberista e l'anima individualista ed anti-statalista dell' America profonda. Un'America che continua ad essr solidamente rappresentata dai 71 milioni di voti conquistati dal presidente uscente. Ma neppure la discriminazione razziale, elencata da Biden come uno dei grandi mali da alleviare, è figlia dell'era trumpiana. Le uccisioni di neri per mano di una polizia fisiologicamente violenta erano una costante anche ai tempi di Obama. A far la differenza, negli ultimi sei mesi, sono state soltanto le campagne di stampa prontissime ad attribuire all'Amministrazione Trump anziché a governatori e sindaci - veri responsabili delle forze di polizia - le responsabilità di quelle tragedie. Ma se scaricare su Trump la questione razziale è vergognosamente strumentale resta da capire quali altri fra i grandi malanni elencati dal «medico» Biden siano reali. Il più evidente e facile da usare è la tragedia del Covid. Il nuovo presidente promette l'avvio di strategie e di forme di prevenzione più stringenti. Ma il risultato resta quanto mai aleatorio. I 238mila decessi, su una popolazione di 330 milioni, registrati fin qui negli Stati Uniti equivalgono ad un morto ogni 1390 abitanti. Un dato purtroppo non molto diverso da quello riscontrabile in paesi come Italia e Francia dove sono state adottate politiche di contenimento assai più stringenti.

C'è poi il male assai meno evidente dell'economia. Nonostante Biden attribuisca ogni colpa al suo predecessore i dati dimostrano che fino allo scoppio della pandemia le ricette di Trump funzionavano egregiamente. Grazie ai tagli fiscali, alle contestatissime politiche protezionistiche e alle agevolazioni concesse a chi riportava in patria la produzione l'America ha goduto, fino all'arrivo del virus, di una crescita ininterrotta e di livelli d'occupazione senza precedenti. Esattamente l'incontrario di quanto vuole fare un Biden deciso a riportare le tasse sulle imprese dal 21 al 28% per cento. Il tutto senza inseguire i miliardi di contribuiti elusi dai grandi intoccabili, ovvero da quei big-tech come Google, Facebook e Twitter che in virtù dell'appassionata battaglia al cattivo Trump continueranno a versare qualche spicciolo in Olanda o Lussemburgo.

Ma l'«harakiri» più evidente del cerusico Biden è la promessa di ritornare agli accordi di Parigi investendo 2mila miliardi in una lotta al cambiamento climatico che prevede l'eliminazione, entro il 2035, delle industrie inquinanti, incentivi ai veicoli elettrici e la ristrutturazione degli edifici con scarsa efficienza energetica. Una svolta che, se mai superà la trincea del Senato repubblicano, regalerà un indiscusso vantaggio ad una Cina ben lontana dall'adottare costose politiche verdi. Del resto il capitolo Cina appare fin da ora come una delle sfide più complesse e contraddittorie. Soprattutto se Biden vorrà, come promesso, garantire un clima più disteso sul fronte commerciale mantenendo però le inflessibili politiche di contenimento strategico avviate da Trump. E in questa prospettiva neppure un Presidente figlio delle più consolidate politiche atlantiste troverà il tempo per «curare» o «curarsi» di un'Europa sminuita e snobbata dal suo predecessore.

Anche perché negli attuali scenari il male peggiore non è più quello russo, ma bensì l'aggressività di un Dragone assai più propenso a minacciare gli alleati del Pacifico che i confini del Vecchio Continente .

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