Ogni giorno un nuovo colpo di scena nel Regno Unito lacerato dalla iattura Brexit. E stavolta tocca a Boris Johnson. Finisce in tribunale il papabile prossimo primo ministro, favorito alla successione di Theresa May nel ruolo di leader del Partito conservatore e prossimo capo di governo. E finisce sotto la lente dei giudici la promessa più mediatica sventolata dagli anti-europeisti, urbi et orbi, durante la campagna del 2016 per il referendum sull'uscita dall'Unione europea. Boris dovrà presentarsi ai magistrati e rispondere di «condotta scorretta durante una carica pubblica» per la dichiarazione usata, ripetuta ed esibita senza sosta sugli autobus rossi a due piani, da lui e dai Leavers (favorevoli all'addio alla Ue) come se fosse una verità inequivocabile: «Inviamo 350 milioni di sterline a settimana all'Unione europea». Uno slogan efficace, che nel 2016 convinse molti a votare per la Brexit, anche perché la promessa parallela era che, una volta recuperati, quei soldi sarebbero stati dirottati sul Sistema sanitario nazionale (Nhs).
«Il Regno Unito non ha mai inviato o dato a Bruxelles 350 milioni di sterline a settimana», spiega Marcus Ball, l'accusatore di 29 anni che ha deciso di denunciare Johnson, allora deputato e sindaco di Londra, raccogliendo 200mila sterline dai cittadini, con la formula del crowdfunding, per mettere in piedi un team legale che sostenesse l'accusa. «Johnson sapeva che quella cifra era falsa e tuttavia optò per ripeterla, più e più volte».
Il problema è che la vicenda diventa scottante a una settimana dalle dimissioni di Theresa May e a dieci giorni dall'apertura della battaglia per la sua successione tra i Tory, usciti tramortiti dalle Europee (appena quinti al 9%, peggior risultato dalla fondazione) mentre il Brexit Party di Nigel Farage, che pure usò quel messaggio nel 2016, ha trionfato con il 32%. La vicenda rischia di aggravare il caos senza fine che ormai regna a Londra, con i Brexiters e Boris che denunciano già un uso politico della giustizia e la volontà di perseguire gli anti-europeisti nella aule di tribunale invece che con le idee. «È la prima volta nella storia inglese che la legge penale viene usata per regolare il contenuto e la qualità del dibattito politico», spiega l'avvocato di Johnson, Adrian Darbishire.
La corsa di Boris, finora favorito ma per nulla certo di mettere piede a Downing Street (i candidati alla successione di May sono finora 11), rischia di traballare ma potrebbe anche compattare compattare i convinti della Brexit, che definiscono «scandalosa» l'accusa, parlano di «dispostismo dei Remainers» e potrebbero unirsi dietro al suo nome.
L'udienza preliminare, in cui si deciderà se Boris sarà rinviato a giudizio, dovrebbe esserci fra tre-quattro settimane e il processo istruito tra circa sei mesi, quando Johnson potrebbe essere già primo ministro. Rischierebbe il carcere a vita, massima pena per l'accusa di «condotta scorretta durante un carica pubblica».
La giudice Margot Coleman, che ha deciso di far avanzare il procedimento, ha spiegato, citando un precedente, che «raramente ci può essere una condotta scorretta come quella di un membro del Parlamento o sindaco che mente ripetutamente agli elettori, su questioni nazionali o internazionali, per ottenere il risultato desiderato». La corsa di Boris è in salita. Il tutto mentre Farage promette di volersi candidare alle prossime politiche in ogni circoscrizione, mentre la Scozia europeista pubblica il testo di legge per indire un secondo referendum sulla secessione.
Nel frattempo nel Labour di Jeremy Corbyn esplode la rivolta per la cacciata dell'ex capo della comunicazione di Tony Blair, Alistair Campbell, colpevole di aver ammesso di aver votato LibDem alle Europee. #Expelmetoo (Caccia anche me) è l'hashtag esploso in segno di protesta. Sarà un'estate calda a Londra. E non è nemmeno cominciata.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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