Beirut Urla di giubilo, applausi, e l'inno nazionale libanese. Erano le 4 del pomeriggio di ieri quando la folla nel centro di Beirut è esplosa fra canti di gioia, all'annuncio delle dimissioni tanto attese del primo ministro Saad Hariri. «Vado a Baabda per presentare le dimissioni di questo governo, in risposta ai libanesi che sono scesi in piazza», ha detto Hariri in un discorso in diretta tv dalla sua residenza accanto al Grand Serail con dietro un quadro del padre Rafik. «Il Libano ha raggiunto un punto morto e ha bisogno di uno shock per rompere la crisi», ha precisato. «La nostra responsabilità oggi è proteggere il Paese e promuovere la sua economia. Le cariche vanno e vengono. Ciò che è importante è la dignità e la sicurezza del Paese». Un sussulto di dignità che forse salverà il Libano, mentre il vicino Irak precipita nella guerra civile e il premier Adel Abdul Mahdi rifiuta di lasciare la carica. Ma tutti e due i Paesi rimangono sotto la pressione dell'Iran e delle sue milizie.
Con le dimissioni di Hariri cade l'intero governo. Così il presidente dovrà ora consultare il Parlamento per formarne un altro. Ma dovrà accordarsi con le stesse fazioni presenti nella coalizione uscente, soprattutto con i partiti sciiti Amal e Hezbollah. Il presidente del Parlamento Nabih Berri, leader di Amal, ha subito invitato «alla calma» e a non far degenere le proteste in scontri settari. Le dimissioni sono arrivate dopo una giornata di grande tensione. Uomini vestiti di nero fedeli a Hezbollah e ad Amal, hanno distrutto le tende dei manifestanti a Place des Martyres. Cantavano slogan, e hanno picchiato con spranghe i dimostranti antigovernativi. La polizia antisommossa e i militari hanno sparato gas lacrimogeni per bloccare l'aggressione.
Nonostante ciò gli attivisti per le strade della capitale libanese non arretrano di un centimetro. Jeanine, 35 anni, impiegata in un'agenzia turistica vicino la moschea Al-Amin racconta: «La situazione ora dopo l'intervento di Hezbollah è più tesa, ma la manifestazione è pacifica quindi l'esercito non interverrà contro di noi, anzi ci ha difeso contro i militanti di Hezbollah e Amal». Rula, 42 anni, lavora in un caffè a Badaro, quartiere cristiano di Beirut. Ci tiene a sottolineare che «le proteste continueranno fino a che non si dimetteranno tutti, non solo Hariri. Non siamo per nessun compromesso, le nostre condizioni sono chiare: tutti a casa!». I libanesi affermano anche che i loro leader, allineati di Arabia Saudita e Iran, mettono gli interessi delle potenze regionali davanti a quelli del loro stesso Paese. «Stiamo lottando per i nostri diritti e vinceremo», afferma convinto Talal, 25 anni, studente.
Le proteste anti-governative in Libano sono state pacifiche e questo lascia aperta la possibilità di una soluzione politica. Ma l'Irak, l'altro Paese del Levante arabo in crisi, è sull'orlo della guerra civile. Soltanto ieri ci sono stati almeno 22 morti e decine i feriti. I manifestanti sono scesi nelle strade di Baghdad e nelle città sante sciite di Karbala e Najaf. Nella notte fra lunedì e ieri a Karbala un commando di uomini mascherati è arrivato e ha cominciato a sparare sulle tende del sit-in nella piazza centrale. E ieri decine di migliaia di iracheni hanno invaso Piazza Tahrir a Baghdad, spinte dalla notizia della carneficina e dal rifiuto del primo ministro di indire elezioni anticipate.
Le forze di sicurezza vicine al ponte Jumhuriya, hanno lanciato gas lacrimogeni contro i manifestanti che hanno tentato di sfondare la Zona Verde. A dar man forte alla piazza è arrivato però l'imam Moqtada al-Sadr, che si è unito ai manifestanti a Najaf.
Al-Sadr ha invitato il premier Mahdi ad annunciare elezioni anticipate supervisionate dalle Nazioni unite e senza la partecipazione di partiti politici esistenti. Mentre i manifestanti avvolti nelle bandiere irachene cantavano: «Con la vita e il sangue difenderemo te, Iraq».
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